Un suggestivo e cadenzato catalogo di immagini, sentimenti, vita: è nelle sale l’attesissimo “La stanza accanto” di Pedro Almodòvar, Leone d’oro come miglior film alla LXXXI Mostra del Cinema di Venezia

Può ancora oggi un film davvero dividere l’opinione generale per la tematica molto forte che affronta? La risposta è sì, se si tratta del più recente lungometraggio scritto e diretto da Pedro AlmodòvarLa Stanza accanto”, Leone d’oro come miglior film alla 81° Mostra del Cinema di Venezia, un’opera che trasporta lo spettatore all’interno di una serie di riflessioni legate alla morte, che prendono forma dallo stesso regista per poi attraversare le due straordinarie protagoniste Julianne Moore e Tilda Swinton, cui vanno ad aggiungersi le interpretazioni di John Turturro, Alessandro Nivola, Esther McGregor, Alvise Rigo.

La storia, tratta dal romanzo “Attraverso la vita” (“What are you going through”) di Sigrid Nunez, parte da due amiche, Ingrid (Julianne Moore) e Martha (Tilda Swinton), che si ritrovano dopo tanto tempo; la prima scrittrice di successo e la seconda ex reporter di guerra, ora ricoverata in ospedale per un cancro che giorno dopo giorno la divora.

Inizia per entrambe un percorso introspettivo che le farà viaggiare all’interno dei loro ricordi, delle scelte non sempre giuste e dei rimorsi (come il legame instaurato da Martha con la figlia Michelle) che porteranno la giornalista a vedere nella sua amica “ritrovata” Ingrid un’ancora di salvezza; infatti, si rende conto che potrebbe essere proprio lei ad assisterla nel suo viaggio verso la morte.

Ecco, così, che viene affrontato sicuramente con una giusta delicatezza il tema dell’eutanasia: tutto, infatti, all’interno del film viene mosso in funzione della morte di Martha, la quale sceglie per se stessa un iter estetico ed emotivo che porta avanti l’intera narrazione e la scelta della pillola e quella sicuramente “élitaria” di una lussuosissima e luminosa casa vacanze, poco lontano dalla caotica New York, sono una chiara manifestazione di questo.

La prima parte del film è forse un po’ più lenta perché volutamente incentrata sui dialoghi tra le due donne e sulla “metabolizzazione” degli anni passati, in un racconto funambolico con flashback che parlano di guerre, abbandoni, incendi, figli, amanti, sesso, per poi passare alla seconda parte, in cui viene pianificata la propria morte dalla protagonista e il passato rocambolesco sparisce dalle immagini (niente più flashback, storie, tortuosità), ma si realizza semplicemente un lucido e metodico piano per morire.

L’autore di “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” lavora molto per citazioni (il cinema di Buster Keaton con il film “Le sette probabilità” e “The dead” di John Houston tratto dal racconto “Gente di Dublino” di James Joyce, i quadri di Edward Hopper e Andrew Wyeth sulle pareti) oltre che simbolismi, forse un po’ troppo ostentati, che stridono e appiattiscono l’intensità.

Il piano visivo è apparentemente suggestivo, ma cadenzato da una sorta di catalogo di immagini, sentimenti, vita; e infatti il primo lungometraggio americano di Almodòvar sembra potersi accostare ad una delle sue opere più riuscite, “Dolor y gloria” (2019), ma, rispetto al precedente, risulta infine spogliato decisamente di emotività.

Con i suoi 74 anni, Almodòvar si dimostra “più sobrio, contenuto e intimo” (come da sua recente dichiarazione), ma oggettivamente rimarrà sempre un suo “marchio”, quello di essere uno dei registi più viscerali e sfacciati dei nostri tempi e di sempre.

Samantha Pinto

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