Buona parte dell’alfabetizzazione sentimentale tradizionale delle donne consiste, in maniera fortunatamente decrescente, nel dividere la vita in due parti: la prima “meglio morta che zitella”, la seconda “meglio morta che senza figli”.
Grazia Deledda sapeva bene questa cosa, e ha distrutto alcuni di questi stereotipi in “Cenere”, un romanzo ambientato tra la campagna sarda, Nuoro e Cagliari. Di suo, il romanzo narra il tragico vissuto di Olì, amante di un uomo sposato cui darà un figlio, Anania, che abbandonerà presso la casa paterna. Anania, cresciuto e dotato di un’istruzione, si metterà alla ricerca della madre, prima di tragici epiloghi.
Teatro delle Bambole dà del romanzo della premio Nobel per la letteratura una lettura a tinte forti e irriverenti, con un debutto regionale. Facente parte del progetto “Dal Letteratura al Teatro”, vede alla regia Andrea Cramarossa, all’aiuto regia Federico Gobbi, ai costumi Silvia Cramarossa. A esaltare la natura viscerale del testo e della messa in scena, lo spazio scenico, il Piccolo Teatro di Bari Eugenio D’Attoma, nelle viscere del Quartiere Carrassi, proprio in un fine settimana, quello stretto tra San Nicola e l’Immacolata in cui la tradizione diventa isteria collettiva, tra traffico impazzito, fuochi d’artificio dal sapore beffardamente bellico e obblighi famigliari a pieno regime.
In scena, il cadavere di una vedova, sappiamo che è tale dal tipico abito nero, che racconta la travagliata storia che ha portato alla nascita del piccolo Anania, fino alla morte del di lui padre, simboleggiato da un cappotto nero, che in vita era stato per Olì fonte di affetto e protezione. È proprio raccontando della morte di Anania padre, che la vedova affronta la catarsi dello spettacolo, che ho adorato molto: spacca alcuni cagnolini giocattolo, simbolo della cura e delle attenzioni che la società ritenga responsabilità delle donne dare al mondo, con una simbologia che è la cifra distintiva di Teatro delle Bambole; scopre una cloche con il teschio del morto e con le sue frattaglie, che vorrebbe lanciare sul pubblico, per liberarsi definitivamente di una presenza maschia che in realtà è ingombrante e inutile dominazione. Infine, la vedova si libera anche del suo abito vedovile, oltreché del figlio e esce di scena, ripresentandosi nei panni di Anania figlio, seguendone tutta la formazione, dall’incredulità danzata, fino al rapporto con Margherita, la giovane figlia del Sindaco, per poi andare alla ricerca della madre. Ne nascono delle deliziose interpolazioni di voce tra sardo, italiano, tedesco, e altrettanto gustosi intermezzi in cui il Teatro delle Bambole richiama i Mamuthones, le maschere carnascialesche sarde.
Al solito, il lavoro testuale è poderoso, e intervallato da rarefatte parti agite col corpo. Uno spettacolo prezioso, pieno, intellettualmente pregno di sensi. Un invito supplementare per noi donne a non prendere acriticamente il ruolo di cura affibbiato dalla società.
Beatrice Zippo
Foto di Massimo Demelas