Un amore viscerale che è semplicemente ostinata presenza, quando – nel dubbio, nel buio, nel dolore – non riesce ad essere altro: Stefania Rocca al Teatro Van Westerhout di Mola di Bari dirige e interpreta “La madre di Eva”.

Davanti alla porta della sala operatoria di una clinica serba, illuminata dalla fredda luce di un neon, siede una donna che non ha nome. Quello che la definisce è il suo ruolo: per tutti è “la madre”.
Dietro la porta, distesa su un lettino e circondata dalle lucine dei monitor, una persona che di nomi ne ha due: nata come Eva, sta per diventare Alessandro.

Comincia così La madre di Eva, andato in scena al Teatro Van Westerhout di Mola di Bari, liberamente tratto dall’omonimo libro di Silvia Ferreri del 2017 (candidato al Premio Strega nel 2018), adattato e diretto da Stefania Rocca che ne è anche l’interprete principale.

Il tema è quello della disforia di genere, ma la ragione ultima e la bellezza di questo spettacolo è nel coraggioso e impegnativo intento di scandagliare e far emergere il dramma dei personaggi protagonisti del racconto, e in particolare il percorso intimo e doloroso della madre di Eva/Alessandro. Se da un lato è chiaro il messaggio che parla di inclusione, accettazione, adesione, è altrettanto evidente ed urgente raccontare il tormento e la profonda solitudine interiore di una famiglia, e soprattutto di una donna, davanti alla volontà ferma e decisa di colei che ha sempre considerato come figlia, e che invece fin da piccola non ha avuto altro desiderio se non di essere qualcun altro. Per Eva/Alessandro la transizione è un percorso che modifica il corpo, non l’identità, ben chiara da sempre. Per la madre, invece, un viaggio tormentato in cui si mescolano aspettative infrante e sensi di colpa (per aver dato a quella figlia tanto amata un corpo che non voleva), in un accavallarsi di sentimenti che oscillano tra la ferocia e la dolcezza, la rabbia dell’impotenza e la tenerezza del ricordo. Su tutto, un grande smarrimento, un intimo e profondo rifiuto, un senso di impotenza davanti alla volontà ostinata di Alessandro, che la madre continuerà a chiamare Eva fino a che, vinta, deciderà di accogliere (per amore, solo per amore) la nuova creatura.

Come in una nuova gestazione, pronunciando per la prima volta il suo nuovo nome, al risveglio dopo la lunga e complessa operazione, la partorirà un’altra volta, riconoscendola finalmente come Alessandro.

Non un lieto fine, non un colpo di spugna.

Piuttosto un nuovo inizio, un nuova relazione tutta da costruire, la disposizione ad accogliere, a camminare insieme: l’amore solido e viscerale come unica guida a sostegno della propria fragilità, del dubbio, della difficoltà a comprendere ed accettare.

Esserci: è questo che ha portato la madre davanti alla porta della sala operatoria. Esserci pur non capendo, dopo essersi opposta con tutte le proprie forze, in uno scontro aspro. Esserci, accettando di aprire il cuore e la mente, accettando di camminare insieme a suo figlio cercando un nuovo linguaggio che insegni ad entrambi a superare gli ostacoli che fino ad allora li hanno divisi.

Se il testo originale è strutturato come un monologo, un flusso di coscienza della madre, nell’adattamento di Stefania Rocca entrano in scena, seppure marginalmente, alcuni personaggi, semplicemente come voci assertive e impotenti (il padre e il marito della donna) oppure come presenze solo formalmente accanto alla famiglia: la psicologa (Selene Demaria) e il chirurgo (Vladimir Aleksic), in realtà freddi e distaccati in una professionalità che non lascia spazio alla dimensione umana e all’empatia.

Di fronte alla madre, in una opposizione che è insieme affermazione della propria identità e richiesta di essere riconosciuto e amato nella verità di sé, Eva (Alessandro, fin dalle prime battute), un convincente Bryan Ceotto, leggero ma incisivo, tormentato ma determinato, in qualche momento un po’ acerbo ma appassionato ed efficace.

Quasi come contraltare ai toni aspri dello scontro, Stefania Rocca usa per sé la cifra della misura e del pudore: il suo personaggio è vero, dolorosamente imperfetto, in alcuni momenti persino distaccato, quasi un passo indietro rispetto all’emozione, al dramma: una scelta che probabilmente consente di raccontare una storia complessa e delicata senza che lo spettatore sia indotto a prendere posizione a favore dell’uno o dell’altro. L’adattamento del testo regala una scrittura semplice, lucida e in alcuni momenti cruda e spietata; custodisce e salva i temi dell’accoglienza e del rispetto, non suggerisce alcun tipo di giudizio etico e morale, ma soprattutto racconta dell’amore potente e salvifico. Un sentimento che è innanzitutto presenza, quando non riesce ad essere altro (nel buio, nell’ostilità, nel dubbio). Nessuna “celebrazione” della figura materna, qui descritta con la sua imperfezione e con il suo limite. Piuttosto la descrizione della sua stessa transizione, altrettanto dolorosa e per certi aspetti più complessa.

Incisive e decisive nel sottolineare il racconto e i sentimenti sono le luci di Francesco Vignati; sobria ed essenziale la scenografia di Gabriele Moreschi, adattata al palco del teatro pugliese. Le musiche sono eseguite dal vivo da Luca Maria Baldini: un altro elemento di autenticità, non una semplice sottolineatura, ma un prezioso complemento al racconto.

Imma Covino

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