Quando a teatro ‘si fa all’amore’: torna a Bari dopo quindici anni il caleidoscopico “Amleto” di Filippo Timi che ipnotizza ed entusiasma nuovamente il pubblico della Stagione di prosa comunale

Credo che in realtà Amleto abbia ben poco a che fare con lo spirito cristiano. La sua sensibilità è certamente più protestante che cattolica, ma nell’intimo è un ermetico e un nichilista, non privo di atteggiamenti umanisti. Il suo ruolo somiglia a quello del Gesù del Vangelo di Marco che è scettico, e continua a chiedere chi sia, a cercare la propria identità, e i suoi discepoli sembrano non capirlo. Sono caratteristiche che ha anche Amleto, anche nei confronti di chi lo circonda.” (Harold Bloom)

La si direbbe l’opera di un selvaggio ubriaco.” (Voltaire)

Cosa accade se si prende un’Opera immortale, un Classico, “il” Classico per eccellenza, e se ne spalancano porte e finestre, anzi se ne scoperchia il tetto abbattendone le pareti? Di certo entra aria nuova, fresca, e questo potrebbe essere indiscutibilmente un bene. Ma può accadere altro; ad esempio, possono entrare nella storia personaggi che passano da lì, ovvero – e questo è assai più probabile – i protagonisti potrebbero rendersi conto che c’è tutto un mondo intorno e, di conseguenza, scegliere di disinteressarsi alla loro rappresentazione, liberandosi dai lacci che li legano da tempo immemore alla loro maschera. Detta così, pare cosa semplice. E invece no, non lo è affatto; ci vuole un gran coraggio, soprattutto se devi confrontarti con un macigno delle dimensioni dell’Amleto shakespeariano.

Quindici anni fa, il genio di Filippo Timi ci aveva fatto gridare al miracolo, consegnandoci con il suo “Amleto – Il popolo non ha il pane? Diamogli le brioche” uno spettacolo coinvolgente, intelligente, divertente ed ironico come pochi, un ingranaggio praticamente perfetto sin dalla scrittura realizzata a quattro mani da Timi e da Stefania De Santis, un’opera magnificamente recitata da un gruppo di pazzi scatenati che si affannavano nel dar vita agli innumerevoli personaggi che entravano ed uscivano a loro piacimento dalle stanze che fanno da scenario alla tragedia del principe di Danimarca. Ora come allora ospite del cartellone della Stagione di prosa del Comune di Bari per quattro sold out del Teatro Piccinni, l’attore/autore/regista torna sul luogo ‘dei delitti’ con il suo “Amleto²” per entrare nuovamente nella grottesca e surreale gabbia delle bestie da circo, posta, nel rispetto dei canoni imposti, a difesa degli spettatori o, viceversa, degli attori, ma con trame così larghe da consentire il facile passaggio e la vicendevole trasmissione di emozioni tra palco e realtà abbattendo la quarta parete (“Voi non ve ne siete accorti, ma stasera abbiamo fatto all’amore!”, griderà Timi al pubblico durante le ovazioni finali); in questo contesto, la verità è scarsamente rilevante, anzi non lo è affatto, bensì lo diventa – pirandellianamente – la proiezione di sé, quella collettiva ma anche quella soggettiva, che, analizzata, si scopre fragile, incerta, illusoria, fallace, perdendo finanche di significato, se non di senso, cosicché si finisce per tradire se stessi, le convinzioni, le scelte, i sentimenti, le speranze, tutto quello che si pensava di aver saldamente costruito e che, al contrario, si rileva un fatiscente castello di carte.

Ad aprire le forsennate danze è sempre la divina Marylin Monroe, interpretata da una splendida Marina Rocco, che non profetizza l’incombente tragedia, cui pure sarà chiamata a partecipare, bensì la sua vittoria dell’Oscar, sogno che si realizzerà in finale proprio dinanzi ai corpi esanimi degli altri protagonisti, ma che avrà – in tutti i sensi – vita breve. Tra la prima e l’ultima apparizione della “biondo platino nell’animo”, passano (e, in gran parte dei casi, se la spassano pure) una miriade di personaggi, ognuno dei quali – in un solo istante – è quello che è ed anche ciò che non è, che vuole o non vuole essere, giullari irriverenti e, spesso, dimentichi del loro stesso destino, magistralmente interpretati da Gabriele Brunelli e, soprattutto, da quella impressionante quanto strabiliante forza della natura che è Lucia Mascino, una superba e portentosa macchina da guerra che, tanto nei panni della guitta flatulente quanto della fedifraga Regina Gertrude, madre e moglie riluttante (che mi ha fatto tornare in mente una dichiarazione di chapliniana memoria: “non riesco a immedesimarmi nei problemi di un principe: la madre di Amleto avrebbe anche potuto andare a letto con tutti i cortigiani e io sarei rimasto assolutamente indifferente al dolore inflitto a suo figlio”) o ancora messasi letteralmente a nudo nel fantastico monologo confessorio a sipario chiuso, gareggiava – e, spesso, vinceva – in ipnotiche doti istrionesche con il magnifico Amleto / Timi, assoluto padrone di quella scena che egli stesso si è creato addosso, con chiari riferimenti al divino Carmelo Bene ma anche al sommo Ettore Petrolini ed alla sua disincantata parodia del principe triste. È come se questo Amleto cercasse di trascinare tutti con sé verso una nuova consapevolezza della possibile vita al di fuori del dramma, non riuscendovi proprio con l’amata Ofelia, la quale non accetta di essere “altro”, ma proseguirà nella sua tragica interpretazione sino all’epilogo, lanciando un alito di ribellione verso l’infausto destino solo post mortem in una splendida quanto commovente pagina, superbamente recitata da Elena Lietti (a Bari presente solo in voce, ma fisicamente sostituita dal danzatore Mattia Chiarelli): è lei l’unico personaggio “vero” in un mondo che, ricercando la verità, trova solo altra finzione, in cui il “non essere” diventa addirittura impronunciabile, con Timi che non ironizza più, come quindici anni fa, sulla sua balbuzie, avendo compreso che il ‘vero problema’ di un attore abita altrove.

In questo “Amleto al quadrato”, forse ancora più che nel suo predecessore, c’è tutta l’altissima cifra stilistica di Timi, caleidoscopica ma mai casuale, come se il regista si richiamasse ad un universo parallelo, ad un metaverso in cui significato e significante si scontrano come elettroni impazziti producendo pura energia. Tutto si fa confuso, incomprensibile, criptato; sprazzi di discorsi affiorano ma vengono spesso interrotti da sempre più frenetici corto circuiti della mente, in cui persino i volti dei protagonisti si mescolano sino a divenire delle indefinite maschere: tutto ciò che è stato – semmai lo è stato davvero – diviene altro, la realtà si fonde con la finzione, i personaggi con gli attori, il teatro con la televisione, il dramma con il grottesco, in un blob indefinito ed impazzito in pieno stile ghezziano, un gioco senza alcuna soluzione di continuità che, talvolta, mostra la corda, risultando un po’ datato in taluni richiami (come per la canzoncina della Cuccarini che chiude lo spettacolo, per lo più sconosciuta al pubblico di giovanissimi che affolla la sala), ma pregno di sì innumerevoli geniali citazioni da conquistare indissolubilmente tutte le anime presenti, come per lo splendido rinvenimento (probabilmente estrapolandola dalla compilation di Pedro Almodóvar “Viva la tristeza!”) della princiana “Nothing compares 2 U” nella sublime versione di Jimmy Scott (e che bello ricordarlo proprio nel giorno della scomparsa di David Lynch, un altro genio che ha reso omaggio all’inusuale ugola di Scott).

Ecco dunque che risulta ancora vincente questa esaltante, entusiasmante, elettrizzante “prova aperta” in cui la celeberrima storia del Bardo prende forma per poi essere deformata, alterata, commutata, violentata, nel mescolarsi di trame, suoni, parola scritta ed estemporaneità, trasformando l’Opera in materia viva nel quale immergere le mani, per portare sul palco, attraverso tempi, modi e atmosfere della Commedia dell’Arte e del Grande Teatro Popolare, le più recondite quanto nefaste passioni dell’essere umano. Timi e tutti i suoi complici, da splendidi acrobati dell’interpretazione quali sono, si dimostrano capaci di cogliere gli umori del pubblico per assecondarlo, rileggendo il classico shakespeariano per renderlo nostro contemporaneo, se non nostro “coetaneo”, con un’affabulazione adrenalinica che si fa irriverente e scanzonata ma mai irrispettosa, fluttuando leggeri e sicuri dentro e fuori i personaggi richiesti dalla storia, in un percorso sempre coinvolgente, ilare o toccante, esilarante o emozionante, dove a farla da padrone è l’Arte della recitazione e dell’improvvisazione; di rado “Amleto” ci è apparso vivo e debole e fragile e drammatico ed attuale ed – in una parola sola – umano come nella loro interpretazione, ancora una volta strabiliante ed ipnotica, grazie ad un saggio processo non soltanto di creazione, ma anche di formazione e ricerca, che dà vita ad un vortice passionale, un cocktail ubriacante, reso ancor più inebriante dal rapido passaggio da uno stato d’animo all’altro: così l’attore, il “semplice” interprete, si trasforma in demiurgo dai dichiarati intenti popolari, ma dalla malcelata inclinazione poetica, trasformandosi in preziosissimo ed imprescindibile simulacro dell’amore, della passione, della vita stessa, contenitore e contenuto di quella scatola magica che è il teatro, tanto più magnifica quando contiene spettacoli di tale sfavillante luminosità. Perché i capolavori saranno pure ciechi, come sentenzia Timi nel prologo a luci spente, ma lui e la sua Compagnia ci vedono benissimo!

Pasquale Attolico
Foto di Annapaola Martin
dal sito della Compagnia

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