
“Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla.” (Alessandro Baricco)
“C’è chi sostiene che per raccontare belle storie basta guardarsi attorno: io non ci credo, perché se così fosse i vigili urbani sarebbero tutti Ingmar Bergman.” (Massimo Troisi)
“Ascoltare un racconto e sentirlo proprio è come ricevere una formula per aggiustare il mondo.” (Roberto Saviano)

Catarsi, dal greco katharsis, κάθαρσις, significa purificazione, pacificazione, sollievo, rasserenamento, ma anche salvezza, riscatto, redenzione, rinascita, rigenerazione, liberazione, e sebbene fosse stato utilizzato anche da Aristotele nella poetica per descrivere l’effetto della tragedia sullo spettatore, è soprattutto in quest’ultima accezione che noi conosciamo questo termine da quando, grazie a Sigmund Freud e Joseph Breuer, è addirittura stato identificato con un metodo psicologico terapeutico che si fonda sulla “narrazione di sè”, l’aprire il proprio cuore, il raccontarsi sino a scandagliare le profondità di se stessi. Anche la risata – è notorio – ha un effetto catartico perché è un potente rimedio psicofisico che, consentendo di esprimere le emozioni in modo gioioso, alleviando lo spirito e aiutando a superare le inibizioni, può addirittura migliorare la salute e il benessere, eppure, inspiegabilmente, è ormai acclarato che al giorno d’oggi ci si lasci andare sempre meno spesso ad una risata vera, spontanea, irrefrenabile, quella che, appunto, ha un effetto catartico che doni un attimo fuggente di calviniana leggerezza; senza giungere alle teorie di Patch Adams, il famoso medico travestito da clown reso immortale dalla insuperabile interpretazione cinematografica di Robin Williams, occorrerebbe comunque a priori accettare il dotto consiglio di privilegiare nelle nostre frequentazioni quei ‘dispensatori di risate’ che fanno di quel potere catartico la loro cifra stilistica.
Da qualsivoglia angolazione lo si voglia inquadrare, non mi viene in mente migliore estrinsecazione dell’effetto catartico di “Io, la seconda figlia”, lo spettacolo scritto ed interpretato da Tiziana Schiavarelli che è ormai senza tema di smentita un must, un evergreen che viene periodicamente riproposto quando l’attrice si concede una temporanea pausa dall’“Anonima G.R.”, la storica formazione barese che la vede Regina assoluta, e che non cessa di riempire le sale facendo ripetutamente registrare sold out, così come è accaduto per le ben quattro recenti repliche al Teatro Abeliano di Bari.

Come nel libro omonimo, l’amatissima attrice barese racconta il suo essere donna ribelle sin dalla tenera età, sempre fuori dagli schemi, certo per naturale propensione ma forse anche a causa della sua genia, del suo essere ‘seconda figlia’ e, quindi, meno curata, seguita, strutturata, organizzata, ‘sistemata’ diremmo noi. Su di un divano appropriatamente rosso come il suo vestito, la Schiavarelli, raccontando i suoi tempi – che poi sono anche i nostri – come solo lei sa fare, con quella ilarità che l’ha resa la paladina dell’humour alle nostre latitudini, non solo realizza pienamente, come detto, la sua personale catarsi, ma dimostra – qualora ve ne fosse ancora bisogno – il suo totale ed assoluto potere catartico sul pubblico. Se aveva ragione lo scrittore e fumettista James Thurber quando affermava che “lo spiritoso fa ridere parlando delle altre persone; il satirico fa ridere parlando del mondo; l’umorista fa ridere parlando di se stesso”, non vi è dubbio che, nell’epoca degli stand up comedian, Tiziana possa a ragione concedersi il lusso di ricordare a tutte/i la sua insuperabile capacità di divertire, la sua innata simpatia capace di produrre dal nulla un’atmosfera intima e familiare grazie all’empatia incondizionata che riesce a creare con gli interlocutori di una sera, quel talento assoluto che riesce a far venire giù il teatro dalle risate anche con un solo ammiccamento, un gesto, un verso, degna rappresentante di quella minoranza di straordinari attori – comici, ma non solo – che hanno fatto dell’intelligenza e della sagacia la loro arma migliore. La Schiavarelli non ha la velleità di stilare un manifesto, di formulare, attraverso questi racconti di vita, una rivoluzionaria, emancipata, totale rivendicazione di libertà, ma sembra fremere dalla voglia di riprodurre davanti ai nostri occhi la sua particolarissima visione del mondo, finanche svincolandosi – sempre in modo sardonicamente popolare – da sovrastrutture moralistiche di tipo etico, giungendo ad ironizzare anche sul successo e sulla meritata fama.

Come nella migliore tradizione del genere, l’attrice barese trova la fonte del suo umorismo anzitutto in se stessa e, in tal modo, rinviene una coscienza personale che riesce, anche a giudicare dalle incessanti risate del pubblico che affolla il Teatro Abeliano, a trasformarsi in coscienza collettiva. Ed è lì che si compie il miracolo: con una forza ed una audacia drammatica che – di solito – restano in ombra, offuscate dalla vis comica – comunque sempre presente nella pièce – della scoppiettante performer che tutti amiamo, e con il solo ausilio di pochi ma fondamentali video, perfettamente incastonati dalla regia di Nole, pseudonimo dietro cui si cela sua sorella maggiore (in altre parole, ‘la prima figlia’), Tiziana, facendosi attraversare dai sentimenti come pelle viva da un bisturi ben affilato, confessa il suo sentimento per la vita, la sua e quella degli altri, le sue passioni, le sue opinioni, la sua consapevolezza, la sua coscienza, il suo aver incontrato e fatto sue molte cause, civili, politiche, sociali, artistiche ed umane, sempre all’insegna del coraggio, il coraggio di inseguire i propri sogni, di lottare, di sfidare i pregiudizi, di esporsi, di cercare di cambiare le cose. È questo il momento dello spettacolo – che trova il suo apice nel ricordo del nostro sfortunato Benedetto Petrone – più duro, in cui le parole si fanno pietre e nessuno dei presenti può sfuggirle: ne siamo inevitabilmente colpiti, percossi, bersagliati, investiti persino; forse perché lanciate a tradimento, irrompono nella nostra memoria e nella nostra coscienza sino a tramortirci emotivamente, perpetuando una lenta ma inesorabile opera di lapidazione ai danni della società in cui ci siamo rifugiati, che si sente legittimata a colpire ‘l’altro’ e a distruggere i suoi stessi frutti migliori, delimitando e limitando il destino di tanti figli del nostro Sud, quelle voci di amici e – ma si, diciamolo! – compagni ascoltate e poi perse, definite e finite, che sembrano affiorare da un silenzio assordante, rifugiatesi negli angoli più segreti della mente per tanto, tanto tempo.

Ma se, come asseriva Jean Genet “una creazione che non abbia all’origine l’amore è inconcepibile”, allora non vi è dubbio che tra i presupposti di “Io, la seconda figlia” vi sia l’amore in quanto dono incondizionato, totale, compiuto, risolto di un’Artista al suo pubblico, alla sua famiglia d’origine ed a quella formata da suo figlio e dal suo compagno di lavoro, di avventura, di vita, il Maestro Dante Marmone che, pur non essendo fisicamente presente, sul palco c’è, eccome se c’è; quando Tiziana intona una delle canzoni che l’autore, regista ed attore le ha dedicato, la platea non è testimone, con palpabile emozione, esclusivamente della cronaca di un viaggio iniziatico, sentimentale, splendido e ancora in progress, ma diventa detentore di un messaggio in bottiglia nelle maree della vita di indicibile bellezza e passione che, lanciato dal palcoscenico, illumina anche nel buio della sala perché, come direbbe Ferzan Özpetek, “quando trovi il coraggio di raccontarla, la tua storia, tutto cambia, perché nel momento stesso in cui la vita si fa racconto, il buio si fa luce e la luce ti indica una strada. E adesso lo sai: il posto caldo, il posto al sud, sei tu!”: ecco perché Tiziana Schiavarelli nel novero delle figlie sarà pure arrivata seconda, ma nell’arte teatrale è sicuramente vincitrice.
Pasquale Attolico
Foto dalla pagina Facebook dell’artista