
Gabriele torna a casa, in quella casa da cui è scappato dieci anni prima per diventare attore. Ha lavorato in numerose fiction, ed è ben consapevole che il nome di suo padre gli ha aperto molte porte. Gli bastava presentarsi e dire che sì, era il figlio di “quel” Laurìa, ricco imprenditore colluso con malavita e camorra, perché le voci tacessero e i ruoli gli fossero assegnati. L’uomo che più disprezzava in qualche modo gli aveva spianato la strada, ed era arrivato per lui un certo successo, a fronte di un talento mediocre. Un giorno però il fragile equilibrio si spezza, e Gabriele si ripresenta nella casa paterna, sapendo che il vecchio è malato, con l’intenzione di prendersi l’azienda. Un conquistatore, al primo sguardo. In realtà un disperato che cerca una nuova strada, un’occasione di riscatto a fronte di un devastante crollo interiore.
Parte da qui “Uccidiamo il re“, la pièce prodotta dalla Compagnia Sunny Side, scritta e diretta da Massimiliano Aceti, con Alessandro Cosentini e Massimiliano Aceti, andata in scena al Teatro Abeliano di Bari nell’ambito della rassegna ‘To The Theatre’.

Lorenzo in quella casa ci è rimasto, risucchiato e annientato da un padre dispotico, violento e manipolatore, incapace di sottrarsi alle dinamiche familiari. La sua permanenza in azienda è stata breve: giudicato incapace, umiliato davanti ai dipendenti, il suo ruolo attuale è quello di autista tuttofare: si occupa della casa, della spesa, ubbidiente e solerte, succube dei capricci e delle assurde decisioni del padre padrone, alle quali non riesce a opporsi.
L’incontro tra i due fratelli è in prima battuta uno scontro. Troppe recriminazioni, incomprensioni, sentimenti cupi e dolorosi. Il vecchio, dispotico e manipolatore, è riuscito a separarli, a renderli deboli perché soli. Neanche sua moglie era riuscita a sottrarsi al suo potere, a fare da collante salvifico in questa famiglia disfunzionale. Silenziosa, remissiva, per anni ha finto di non vedere la violenza fisica e psicologica, i lividi e le punizioni. Per lei i figli non hanno parole di tenerezza, ma rimproveri aspri perché non li ha difesi, perché ha distolto lo sguardo. Nessuno si salva, o meglio: ciascuno ha tentato di salvarsi in qualche modo, in qualunque modo.

Su una cosa però i fratelli sono d’accordo: il padre è la causa della loro infelicità, il responsabile dei loro fallimenti. E così matura la decisione, audace e inizialmente liberatoria, di ucciderlo, in una voglia di riscatto che rivela la bassezza anche della loro anima, come se l’imprinting paterno avesse sporcato tutti, pure le vittime, che ora si fanno carnefici. Sarà una morte lenta, per avvelenamento progressivo, che possa essere confusa con il naturale declino dovuto all’età. Si riprenderanno l’azienda, che l’uomo sta affidando ad un estraneo, (destinando ai figli un misero vitalizio) e cacceranno l’amante che il vecchio sta ricoprendo di regali.
Per raggiungere l’obbiettivo serve però un progetto articolato, e soprattutto lucidità, determinazione e nervi saldi. Lorenzo e Gabriele capiscono ben presto di non riuscire a gestire il piano criminale che hanno ordito. La situazione si complica drammaticamente, e ancora una volta sono sopraffatti, inadeguati, sconfitti. E questa volta non possono dare la colpa al padre…
Un attimo prima della tempesta che sta per scatenarsi, i due si concedono un’ultima fuga, l’evocazione di uno scenario sognato e mai stato, un attimo di tenerezza: il pensiero felice di due bambini, sereni e amati, che disegnano la loro famiglia.
Due uomini sull’orlo del precipizio immaginano un pomeriggio di giochi e si chiedono “Come sarebbe stata la nostra vita se…”.

Massimiliano Aceti, autore e regista, scrive un testo doloroso, spietato, feroce anche se, paradossalmente, in questo spettacolo si ride molto. C’è un continuo alternarsi di registri, che fa pensare alle commedie di Monicelli (qualcuno ha evocato il suo “Parenti serpenti”) dove la risata si accompagna al racconto delle miserie umane. Dopo un inizio comico e grottesco (l’organizzazione della veglia funebre da parte del padre ancora in vita, quasi a voler decidere anche i posti a sedere degli invitati) e dopo l’incontro-scontro tra i due fratelli, i toni si fanno più seri, in un crescendo rapido e incalzante: un ritmo serratissimo, che non lascia respirare attori e spettatori, con piccole finestre sul passato che, pur sospendendo la frenesia della narrazione, la caricano di strazio, svelando abusi, violenze, sopraffazioni, silenzi omertosi e impotenti. Dolore, con parentesi di dolore. Eppure Aceti riesce a tener viva una sorta di leggerezza che protegge dalla disperazione, che mescola dramma e commedia.
Insieme a lui, sul palco, Alessandro Cosentini. I due riescono a coniugare una recitazione apparentemente spontanea e naturale con una precisione chirurgica nei tempi e nella dinamica di voci e corpi, dando vita ad una pièce davvero potente, profonda, articolata e complessa, dove ogni parola e ogni gesto hanno un senso e un significato preciso. Bravissimi entrambi, senza che uno prevalga sull’altro, in una amalgama perfetta al servizio della storia. Rapidi, incalzanti, ma anche capaci di mezzi toni e sfumature che colorano e definiscono i caratteri dei personaggi. Ci auguriamo di rivederli presto, sicuri che sapranno ancora incantarci, come hanno fatto questa sera. Come fa il teatro quando c’è cuore, maestria e passione.
Imma Covino
Foto dal sito della Compagnia
Perfetta come sempre Imma Covino! Certo, abbiamo assistito ad una vera e propria prova d’attore. Grazie
Vito signorile