Nei primi tre giovedì di settembre, sul finire di un’estate stranissima, è stata restituita ai cittadini di Bari e dintorni, dopo mesi di sopportazione di una pandemia che ha sconvolto le nostre vite, una pagina di bellezza che ha accarezzato il nostro cuore e le nostre menti.
Sì, la sensazione è stata questa.
Carezze che sono arrivate dentro, fino a qualche punto sensibile della testa e l’ha stordita in una specie di abbandono senza pensiero e senza peso.
Carezze. Tra i graffi di un’incertezza paralizzante.
L’atrio enorme dell’Istituto del Redentore di Bari ha ospitato tre serate di conforto (gratuito) per le nostre coscienze provate. Nel cuore di un quartiere di Bari che ha nel nome un destino di riscatto e affrancamento da tutto quello che di solito ci impedisce di prendere il volo e librarci sereni per le strade del mondo.
Chi ha avuto la fortuna di partecipare alle tre serate, credo abbia avuto netta la sensazione di essere stato preso per mano e condotto per sentieri di grazia e coraggio insieme, facendosi largo tra le brutture dell’ovvio.
Un cortile enorme dicevo e un numero limitato di sedie che nelle tre serate ha trovato porzioni limitate di collocazione diversa, in tre punti differenti dello spazio a disposizione: una sorta di metafora della bellezza di solito relegata ai margini del nostro vivere, del nostro sentire.
La vibrazione profonda della voce di Nunzia Antonino si è fatta Amica delle nostre sere in questi “magnifici giovedì”, come Amici sono diventati pure i musicisti e gli strumenti musicali che l’hanno accompagnata: la fisarmonica, suadente e nostalgica di Vince Abbracciante, la tiorba fascinosa di Francesca Benetti, il ventaglio variegato e sorprendente di percussioni di Filippo Lattanzi con Francesco D’Aniello e Giovanni Astorino.
Poesia e/é Libertà. La congiunzione s’è tramutata subito in verbo, perché la poesia, parola che si prende cura e che salva – come tutta l’arte – è un esercizio di pura libertà.
Il progetto calibrato dalla premura musicale del Maestro Gioacchino De Padova e dalla sapienza teatrale del regista Carlo Bruni, nella cornice ospitante e incoraggiante di Don Francesco Preite, ha avuto come prima tappa del suo itinerario “Capaci di cambiare”: racconti di mafia pugliese tratti dall’antologia di Daniela Marcone “Non a caso” per i tipi de La Meridiana.
Sono state raccontate le storie non tanto di “Cosa nostra”, quanto di casa nostra, di Francesco Marcone, Hyso Telharaj, Sergio Cosmai, Marcella Levrano, Donato Diego Maria Boscia e Rosario di Salvo. Nomi che andrebbero mandati a memoria: storie di coraggio e di sangue, di denuncia e forza a scuotere le nostre coscienze.
Il cielo stellato sopra di noi e la legge spietata della mafia che ha tolto la vita a questi testimoni coraggiosi di fronte a noi. Una scenografia spoglia, nuda direi, come sono risultate nude di pietra le parole di Nunzia e le note struggenti di Vince. Nude sì, pulite, precise, esatte, rigorose, “in piedi”, non supinamente obbedienti, ma piuttosto attente come sentinelle a dirci quanto resta della notte. E più delle parole, la commossa perfezione della voce di Nunzia – è magica questa donna! – qualunque cosa racconti, la più straziata, la più felice, prende in braccio gli spettatori e li culla.
E una culla di calore appassionato, un rifugio accogliente è stata la seconda tappa del tour: “Il pane e le rose”.
Non di solo pane vive l’uomo ma delle parole della Letteratura e della Storia di tutti i tempi di tutta la gente del mondo e di chi quella storia l’ha vissuta e tramandata. I testi di Borges, Dino Campana, Pierluigi Cappello, Vincenzo Consolo, Mariangela Gaualtieri, Alda Merini, Anne Michaels, Elsa Morante, P.P.P., Rainer Maria Rilke, José Saramago, Wislawa Szymborska hanno ripreso vita accompagnati dalla chitarra, dalla tiorba e dalla voce – flessuosa e dolcissima – di Francesca Benetti. E del pubblico che volentieri si è unito alla
marcia dei lavoratori inglesi di uno sciopero di un’industria tessile di Lawrence nel 1912 che “giustamente” rivendicava le rose e il pane, lavoro e dignità:
“As we go marching, marching
In the beauty of the day
A million darkened kitchens
A thousand mill lofts grey
Are touched with all the radiance
That a sudden sun discloses
For the people hear us singing
Bread and roses, bread and roses.“
“Mentre marciamo e marciamo,
innumerevoli donne morte,
piangono, attraverso il nostro canto,
il loro antico lamento per il pane.
Il loro spirito stremato conobbe poca arte,
poca bellezza e poco amore.
Si, è per il pane che combattiamo,
ma noi combattiamo anche per le rose!“
Anche la partecipazione del pubblico al canto è sembrata una metafora più ampia: libertà è anche partecipazione (il Maestro Gaber docet) di chi si lascia coinvolgere in certi spettacoli non “subendoli” da semplice osservatore, ma facendo propria l’anima della scena, nel suo senso più profondo. Si canta con una certa fierezza, e torna alla mente la certezza che se i popoli si accorgessero del loro bisogno di rose, scoppierebbe la rivoluzione. Eppure viceversa, le rose – parafrasando Camus – non fanno le rivoluzioni, ma verrà un giorno in cui le rivoluzioni avranno bisogno di rose.
La fame di rose senza perché, belle compagne di lotte, ha condotto dunque gli spettatori fino all’ultima tappa del percorso: “Skakespeare in Drum”: un finale sorprendente.
Il cardine della poesia di tutti i tempi “suonato” a colpi di strumenti inediti che mai
avremmo associato alla sua leggiadria. Una serata di colpi al cuore, dai più potenti ai meno violenti ma che sempre hanno scandito i battiti degli astanti. Una serata-elettrocardiogramma. O da “tracciato”, come di donne in attesa di un bimbo che sta per
nascere. Versi e gong. Dolci note soffuse tra dichiarazioni d’amore e invocazioni alla notte. Leggiadria della poesia e pesantezza del vivere. Amore e morte.
“Gli amanti possono compiere i loro riti alla sola luce della loro stessa bellezza. Se l’amore è cieco, meglio si addice alla notte, matrona semplicemente vestita tutta di nero che avvolge con il tuo nero mantello l’indomabile sangue che pulsa nelle guance affinché
il timido amore, diventato audace, capisca che il pudore è un atto di passione fedele” – ha detto Giulietta-Nunzia celebrando un amore che in questi versi resterà eternamente giovane e immortale.
Temo che un atto d’amore per questa città abbia determinato il Bando “Arene culturali 2020” che ha visto l’assessora Ines Pierucci – spettatrice tra gli spettatori – impegnata a promuovere iniziative culturali per tutta l’estate. Peraltro l’esperimento di “guerrilla poetica”, a cura di Marta Balu e Raffaella Giancipoli, concomitante con le serate “poetiche e libere” ha riempito di parole belle come fresca rugiada e nuovo respiro i muri e le strade del Libertà.
Questo ci induce ad una riflessione semplice sul senso delle nostre politiche a favore della cultura. La nostra epoca – e questa pandemia inaspettata ce lo ha confermato – ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni, è sempre Camus a ricordarcelo. “Abbiamo esiliato la bellezza, mentre i Greci per essa hanno preso le armi”.
Rimettere al centro di una città le periferie, ridare loro “il pane delle rose”, nutrendole di senso è tornare a dare fiato alla vita di tutti, anche dietro una mascherina. La distruzione della bellezza è come un suicidio di massa delle nostre anime. La cultura in senso lato, in tutte le sue declinazioni, non è un orpello inutile, un “ninnolo esotico” nelle nostre politiche di governo, è piuttosto un grande atto d’amore nei confronti del mondo perché costruisce legami che “addomesticano” (nel senso saint-exupéryano del termine) e salvano, promuovendo semplicemente umanità, quella più bella, quella più autenticamente vera, favorendone fioriture.
La cultura come atto d’amore nei confronti della città, a suggerire visioni, per niente utopiche ma concretamente realistiche.
Del resto Shakespeare aveva ragione:
“L’amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella-guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.
Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra e gote
dovranno cadere sotto la sua curva lama;
Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio”.
L’amore non è lo zimbello del tempo. L’amore resiste.
Nella nostra marcia nella storia camminiamo ricordando il pianto e il lamento di quella parte di umanità che ha conosciuto non solo poco pane, ma anche poca arte, poca bellezza e quindi poco amore.
Si tratta di una nuova Resistenza.
Assolutamente necessaria.
Per sopravvivere.
Paola Zaccheo