Nel contesto del secondo conflitto mondiale, una rilevanza straordinaria ha avuto l’utilizzo della propaganda attraverso tutti gli strumenti possibili.
Giornali, manifesti, cinema, radio, musica.
Si, anche la musica aveva un ruolo significativo nella propaganda.
Durante la dittatura fascista la musica trasmessa dalla radio doveva avere un ruolo di evasione ma anche di affermazione della ideologia fascista. Gli autori e gli esecutori dovevano essere italiani, e le marcette militari e testi di esaltazione del duce e dell’impero della gloria dei combattenti italiani nelle guerre coloniali erano all’ordine del giorno dei palinsesti musicali in radio. (Giovinezza, Inno a Roma, Inno trionfale del partito nazionale fascista, Inno dei figli della lupa, Saluto al duce, Squadristi a noi (me ne frego), Allarmi siam fascisti, Passo romano, Vincere, Ti saluto vado in Abissinia, Faccetta nera, Fischia il sasso, La canzone dei sommergibili, La preghiera del legionario ,Battaglione M, Africa nostra, La sagra di Giarabub, Il Canto dei volontari, Marcia delle legioni, Camerata Richard). Molti di questi motivi furono riutilizzati dalla resistenza partigiana con testi modificati.
I testi delle canzonette sono indirizzate ad una esaltazione mistica di Mussolini “uomo della provvidenza”, e al riferimento demagogico di una Italia rurale e familistica.
Questo il testo di “Saluto al Duce “, testo di Vittorio Emanuele Bravetta e musica di Ezio Carabella: “Benedetto dal Sole dalla Terra, dal Pane, dalle mani materne, dal sorriso infantile, dalle zappe lucenti, dalle navi lontane, benedetto da Roma, al ventuno d’Aprile, Dio Ti manda all’Italia come manda la luce, Duce,Duce,Duce“. (Bravetta V.E., Carabella E., 1937, spartiti ed. FDS Roma.
L’esigenza di affermare la superiorità della “razza italiana” con il suo bagaglio di cultura “Romana”, porta il regime a proibire la musica di altri popoli e altre culture, in particolare viene proibito il Jazz, che viene definito italianamente Gez.
Nonostante il carattere rivoluzionario della musica del Futurismo che sovvertiva i canoni classici della musica con sperimentazioni ardite, addirittura con l’invenzione di nuovi strumenti come “l’intonarumori” o il “rumorarmonio” producenti ululati, rombi, stropiccii, sibili, ronzii di Luigi Russolo, o le parole di rottura degli insegnamenti accademici dei conservatori di Francesco Pratella (“Disertate i conservatori, i licei e le accademie, e determinatene la chiusura; si vorrà certamente provvedere alle necessità dell’esperienza, col dare agli studi musicali un carattere di libertà assoluta”), il regime fascista che si ispirava alla estetica del Futurismo, e che aveva fatto contestare fino a farlo schiaffeggiare Arturo Toscanini che dirigeva un’Opera di Wagner a Bologna, fa una inversione di marcia tornando al passato.
E vi è una profusione di articoli su riviste specializzate che annunciano il pericolo della nuova corrente musicale che veniva dagli Stati Uniti.
Scrive Bragaglia su Jazz Band: “… E’ un fatto incontestabile, e l’allarme è già dato, che si danzi all’americana un po’ dappertutto: o danze meccaniche e animalesche, o danze di gente di colore…Va di moda da tempo, in tutti centri mondani, il gusto certamente affettato e però tutto superficiale per le caratteristiche ritmiche negroidi, roba affatto vieta, per le nostre classiche tradizioni. E che? forse non avveniva la stessa faccenda a Roma, nell’età tarda dell’impero, massimamente quando la licenza e la scurrilità improntavano le danze, appunto per l’importazione di sconcezze istrioniche, roba da schiavi e di asiatici, in fondo? Cose addirittura servili e barbariche dunque… I ritmi del jazz snodano le cerniere di stoffa del nostro adorabile pupazzo senza nervi e ne battono gli scatti a tempo. Ad ogni ritmo egli scuote e spezza il colpo; il caro fantoccio par che crolli; ma al tempo stesso si riallaccia con se stesso e si ricompone. Ma bravo. Rieccolo scardinarsi e rieccolo ricucirsi a tempo di musica sul ritmo del jazz graziosissimo terremotino da camera, terremotino ad uso di pupazzi scollati che abbian l’anima di caucciù nelle giunture… Pazzie ritmiche, prodezze di irresistibile astruseria… E non bastano le stupefacenti figurazioni più o meno animalesche, più o meno morbosamente epilettoidi, il jazz band ci ha regalato scossoni antisentimentali e antiromantici, d’una crudezza sessuale assoluta. Quelle crudezze che appartengono ad ogni reazione… La riabilitazione del goffo, del laido, del ridicolo: l’apoteosi del ripugnante schifoso come bello orrido…“
Toni beceri e impastati di razzismo e sessismo con un tentativo di riflessione del fenomeno musicale gradito dal grande pubblico e consapevolezza della importanza della questione nelle parole di E. Magni-Dufflocq nell’articolo Da Bach a Jazz in “Perseo” 1934: “Il pubblico, il popolo, il mondo, vanno pazzi per la battuta che è come dire alcool ritmico… Le donne (dico le donne al cento per cento) vanno pazze per i negri, per i lottatori, per gli uomini pelosi: capite benissimo che fare il gagà al loro cospetto non conviene più e non è simpatico… Ritmo, dunque! Ritmo elementare convincente, appiccicativo, trascinante! Jazz? No. Ma dal jazz, signori c’è molto da imparare… con tutte le diavolerie tutt’altro che facilone del mondo negro-negroide-ebraico, che ha vinto e domina le nostre folle. Non esaltiamolo il Jazz, ma studiamolo.”
Ma il jazz era molto gradito agli ascoltatori, i ritmi swing invitavano a ballare, e all’interno stesso degli esperti musicali esiste una forte contraddizione fra le direttive del regime e le riflessioni sulla portata rivoluzionaria del nuovo stile musicale, Alfredo Casella ad esempio fa una analisi del fenomeno decisamente positiva ed addirittura esaltante del carattere innovativo del jazz attribuendole affinità alla “migliore tecnica Mozartiana”!
Scrive Casella nella rivista “Italia letteraria” Il jazz è una musica seria, “Rivista della città di Venezia”1936: “Siccome si leggono quotidianamente sulle pubblicazioni italiane ogni sorta di scemenze sulla musica afro-americana, siccome mai mi ricordo di avervi letto un articolo che dimostrasse una qualsiasi vera conoscenza di quell’arte, cosi credo utile parlare una buona volta nella nostra lingua di un fenomeno musicale che ormai tutti gli europei –salvo qualche vecchio ostinato provinciale- accettano e studiano con la dovuta serietà…nel jazz la liberazione dal gioco aritmetico avviene per opera di violenti spostamenti di accento ritmico… Noterò ancora di sfuggita una cosa nella tecnica polifonica jazzistica che avvicina quest’arte strumentale alla migliore tecnica mozartiana od alla più evoluta nostra: la assenza totale di raddoppi nella strumentazione. In questo il jazz è nettamente antiwagneriano e tende la mano al miglior novecento strumentale europeo… Quest’arte sintetizza con mirabile eloquenza sonora quella vertiginosa miscela di sangue e di razze che sono gli Stati Uniti… Il jazz è oggi l’unica musica la quale abbia indubbiamente lo stile novecentista. Fra tendenze contraddittorie, dove ogni compositore dice la sua e nessuno raggiunge lo scopo di dare all’umanità del dopoguerra lo stile musicale che sintetizzi la nuova mentalità, il jazz sta dando ai musici “seri” una vera e grande lezione“.
Interessante è anche la valorizzazione nella musica jazz del ruolo dell’esecutore che diventa un creatore che utilizza il testo composto come un pretesto per la sua interpretazione. Scrive Soria M., in ”Rivista musicale italiana”: Prolegomeni del jazz. Vol. 40 (1936), pp. 126-130: “E ovvio che, nella musica classica, al compositore spetta tutto il carico della composizione, si che il merito dell’esecutore è il riprodurre fedelmente il pensiero dell’autore, quale da costui già fu espresso in note. Ma costretto entro questi limiti, l’esecutore non dimostra tutta la propria intelligenza… Non è così nel jazz. Qui è l’esecutore che sale in primo piano. Terrà, si, presente, una melodia tracciata, ma essa sarà per lui un mezzo, un pretesto per la propria interpretazione, e per una nuova creazione… Lo swing è il vero “non so che” del jazz. Le esecuzioni prive di questa caratteristica trascinante, di questo trasporto dinamico ed esaltatore, più che essere cattive esecuzioni di jazz, sono esecuzioni che nemmeno possono meritare tal nome. Senza lo swing non si ha il jazz”.
Emblematica la vicenda di Alexandra Giudit e Katie Leschan, ebree olandesi meglio conosciute come Trio Lescano. Arrivate in Italia riscuotono un successo popolare straordinario con canzonette leggere e scacciapensieri con ritmo swing accattivante. Il regime fascista ne fa un punto di forza come arma di distrazione di massa accettando i ritmi non conformi alla ideologia. Ma con la promulgazioni delle leggi razziali si complica la loro vicenda tanto che sono costrette a “comprarsi” con una forte cifra la cittadinanza italiana per non essere espulse dall’Eiar e a modificare i loro nomi in Alessandra, Giuditta e Caterinetta. Essendo figlie di madre ebrea, ma di padre ariano, le tre cantanti riuscirono ad evitare la deportazione, ma cionondimeno restarono continuamente sotto l’attento e insistente controllo della polizia fascista, che intravedeva nei testi delle loro canzoni, messaggi in codice contrari al regime, e sottili satire al potere. Modificano nel 41-42 anche il loro stile come si evince dalla canzone “Addio tulipan”:
”I tuli-tulipani non canteremo più
Ma la violetta la va la va, la va la va
Addio ai tuli-tuli-tuli-pan!
Stanotte ho sognato la luna d’argento
Che mite splendeva sui mulini a vento
E tre olandesine piccine piccine
Che in coro cantavan così
Addio mulini a vento, non vi vedremo più
Un dì vi abbiam lasciati per questo cielo blu
è un cielo che ci ammalia e che ci fa sognar
Il cielo dell’Italia che sa farci cantar
La candida casetta in cui nascemmo un dì
E gli alberi ed i prati ci dicono così
Se voi ci abbandonate, rifioriranno invan i tuli-tuli-tuli-tulipan
Il vostro bel ricordo, delicati fior, noi serberemo sempre in fondo al cuor
Ma qui in Italia sono assai più belli i fior
Cresciuti al dolce raggio dell’amor
Non canteremo più i tuli-tulipan
Ma questo cielo blu, il cielo che è italian
Le primule e le rose scordare ci faran i tuli-tuli-tuli-tulipan
Addio mulini a vento, non vi vedremo più
Un dì vi abbiam lasciati per questo cielo blu
Non canteremo più i tuli-tulipan
Tonda, nel ciel di maggio, farà il suo viaggio la bianca luna imman
La candida casetta in cui nascemmo un dì
E gli alberi ed i prati ci dicono così
Se voi ci abbandonate, rifioriranno invan i tuli-tuli-tuli-tulipan
Il vostro bel ricordo, oh delicati fior
Noi serberemo sempre in fondo al cuor
Ma qui in Italia
Più belli fior
Cresciuti al dolce raggio dell’amor
Tuli-tulipani, tuli-tulipani
I tuli-tulipani non canteremo più
Ma la violetta la va la va, la va la va
Addio ai tuli-tuli-tuli-pan!“
Dopo il 1943, nel novembre, saranno arrestate e portate nel carcere di Marassi a Genova dove Katie, che conosceva il tedesco, fu costretta a fare da interprete negli interrogatori dei partigiani che venivano torturati e per essere liberate pagarono cifre spropositate.
Ancora più significativa la vicenda di Francesco Kramer Gorni in arte Gorni Kramer.
Nei primi tempi lavorò come musicista in diverse orchestre da ballo, poi nel 1933, costituì un suo gruppo con cui suonare il jazz vietato dal regime fascista, costretti però a trasmettere pezzi di Louis Armstrong e Benny Goodman perché piacevano moltissimo al pubblico, con il ridicolo escamotage di italianizzare i loro nomi in Luigi Braccioforte e Benedetto Buonuomo! Ma Gorni Kramer aveva potuto conoscerlo grazie ad amici orchestrali che lavoravano sui transatlantici che collegavano l’Europa e l’America. Durante la seconda guerra mondiale, il maestro collaborò con il cantante Natalino Otto, altro artista bandito dalla radio a causa dello swing. Nel 1939 compose Pippo non lo sa, uno dei pezzi più famosi del Trio Lescano. Nonostante la popolarità di queste canzoni, Gorni Kramer e la sua orchestra continuarono ad essere ignorati dall’EIAR, che li boicottava perché suonavano jazz, e anche perché iscritto alla massoneria.
“Pippo non lo sa
Ma quando passa
Ride tutta la città
E le sardine dalle vetrine
Gli fan mille mossettine
Ma lui con grande serietà
Saluta tutti fa un inchino
E se ne va
Si crede bello
Come un Apollo
E saltella come un pollo
Sopra il cappotto
Porta la giacca
E spora il gilet
La camicia
Sopra le scarpe
Porta le calze
Non ha un botton
E con i lacci tiene su il calzoni
E Pippo Pippo non lo sa
E serio serio se ne va per citta
Si crede bello
Come un Apollo
E saltella come un pollo
Pippo Pippo non lo sa
Ma quando passa
Ride tutta la città
E le sartine dalle vetrine
Gli fan mille mossettine
Ma lui con
Grande grande seri serietà
Saluta tutti fa un inchino
E se ne va
Si crede bello
Come un Apollo
E saltella come un pollo
Sopra il cappotto
Porta la giacca
E spora il gilet
La camicia
Sopra le scarpe
Porta le calze
Non ha un botton
E con i lacci tiene su il calzon
Solo solo Pippo non lo sa
Ma quando passa
Ride tutta la città
E le sardine dalle vetrine
Gli fan mille mossettine
Ma lui con
Grande grande seri serietà
Saluta tutti fa un inchino
E se ne va
Si crede bello
Come un Apollo
E saltella come un pollo.”
(Compositori: Panzeri / Rastelli / Kramer)
Ma la censura non smontava mai di guardia e, a volte, vedeva cose inesistenti: nel caso di specie, identificava Pippo con Achille Starace, capo di stato maggiore della milizia, che era solito sfilare mostrando orgogliosamente la sua divisa nera. La diffusione della canzone via radio fu immediatamente bloccata.
Tanti anni dopo, nel 1962, l’autore svelò l’arcano. Era il 1939, e, a Viareggio, Gorni si stava esibendo al Kursaal. Ma non ingranava. I giovani volevano jazz e motivi americani ma l’aria che tirava non consentiva di venire loro incontro. Una sera incontrò il Maestro della EIAR Pippo Barzizza e con lui si sfogò: “Infine, che cosa vuole tutta questa gente? Io cerco di accontentare gli americanofili e gli autarchici, i seguaci dello swing e i patiti dei vecchi valzer paesani. Niente da fare. Che cosa non va?”. Pippo Barzizza, a quel punto, strinse le spalle rispondendo: “E chi lo sa? Io non lo so ma nemmeno voglio saperlo”. E se ne andò. Kramer, alquanto deluso dalla risposta, andò in camerino ripetendo tra sé: “Pippo Pippo non lo sa, e Pippo Pippo non lo sa”. Continuò anche a fine serata tornando in albergo, rimuginandoci su. Le parole, quasi ossessive, si trasformarono in musica e, tempo poche ore, sfornò la nota canzone. Ancora una volta il contesto storico e l’artista avevano compiuto il miracolo: da un dubbio nasceva la certezza di una pietra miliare della canzone italiana. Gorni Kramer avrà un ruolo fondamentale a partire dal settembre 1943, legato alla vicenda di Radio Bari, ma di questo parleremo in seguito.
Aldo Muciaccia
Un grazie ad Aldo Muciaccia. E’ utile una spiegazione dell’ influenza dei regimi sulle arti, i nostri figli non hanno notizie di prima mano come abbiamo avuto noi dai nostri genitori che, cresciuti o nati durante il fascismo ma nonostante tutto con la voglia di ballare e cantare uguale a quella di altri popoli meno oppressi, hanno dovuto giustificarsi quando ci accorgevamo che sapevano tutte le canzoni fasciste.
Grande Aldo! Una ricerca paziente che svela un altro (ridicolo) diktat del fascismo, che italianizzava persino i nomi di grandi musicisti americani!!
eccellente recupero della storia