1. Dal Teatro Goldoni al Teatro San Marco
Livorno, 21 gennaio 1921 mattinata piovosa ore 10:00. “I delegati che hanno votato la mozione della frazione comunista abbandonino la sala – Sono convocati alle 11:00 al Teatro San Marco, per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della terza internazionale”.
È l’annuncio di Amadeo Bordiga ai tremila delegati del diciassettesimo congresso del partito socialista Italiano, pronunciato dalla tribuna del congresso del Psi al teatro Goldoni di Livorno, su un palco pieno di garofani e il grande ritratto di Carlo Marx. I comunisti escono dal teatro al canto dell’Internazionale, mentre quelli che rimangono intonano l’inno dei lavoratori.
Si conosce ormai con chiarezza critica il contesto di riferimento nel quale prese avvio uno degli episodi più significativi del ventesimo secolo, la fondazione del Partito Comunista d’Italia il 21 gennaio 1921.
Il primo conflitto mondiale, la grande catastrofe globale che coinvolse milioni di persone, lasciò dei segni devastanti dal punto di vista economico, sociale, psicologico, restando, tutt’oggi uno degli eventi che più hanno segnato il corso della storia.
“Non solo è la più cruenta e disastrosa di tutte le guerre sperimentate fin qui a causa della micidiale perfezione raggiunta dalle armi sia offensive che difensive – scrive nel 1915 Sigmund Freud – ma è almeno altrettanto crudele, accanita e spietata di ogni altra precedente. Essa oltrepassa ogni limitazione a cui ci si obbliga in tempo di pace: quelle limitazioni che sono andate sotto il nome di diritto delle genti; non riconosce le prerogative del ferito e del medico, né fa distinzione fra popolazione pacifica e popolazione in armi, e nega il diritto della proprietà privata. Abbatte, con furore cieco, tutto quanto trova sul suo cammino, come se dopo di essa non dovesse esservi né futuro né pace fra gli uomini. Spezza ogni vincolo comunitario che lega i popoli in lotta e minaccia di lasciar dietro di sé un rancore tale da rendere ancora per lungo tempo impossibile il ripristino di quelle relazioni.”
Gramsci invece riesce a vedere nell’orrore della guerra alcuni segnali di solidarietà e scrive: “La guerra ha costretto i diversi strati sociali ad avvicinarsi, a conoscersi ad apprezzarsi reciprocamente, nella comune sofferenza e nella comune resistenza a forme di vita eccezionali che determinavano una maggiore sincerità e un più approssimato avvicinarsi all’umanità «biologicamente» intesa”.
Oltre al dramma bellico, il primo ventennio del novecento ha visto una rottura epistemologica con la realtà ottocentesca, si sono consolidate innovazioni scientifiche e tecnologiche che hanno modificato i ritmi delle fabbriche, dei campi, delle città. Tutto ciò si è riversato sulle dinamiche delle lotte di classe e delle organizzazioni politiche e sindacali.
Come spesso capita nel corso della storia sono i giovani ad avere le antenne più sensibili ai cambiamenti.
“Noi ci sentiamo solidali con l’immenso pullulare di forze giovanili e non ne rinnegheremo quello che i filistei chiamano un errore e gioiamo del senso gagliardo della vita che ne promana – scrive A. Gramsci ne “Il grido del Popolo” in polemica con i vecchi socialisti che raccomandano prudenza, un moto graduale senza intemperanze – … il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette: vuole comprensione, intelligenza e simpatia umana.”
E, ancora, nel numero unico “La città futura” dell’11 febbraio 1917: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia … Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
2. Il partito delle nuove generazioni
Nel 1921, molti dei dirigenti del partito socialista, nati prima dell’unità d’Italia: Turati, Costa, Prampolini, Lazzari, Ferri, Kuliscioff hanno un’età di circa 60 anni o poco più, il gruppo dirigente che al Teatro San Marco proclamerà la fondazione del Pcd, sarà composto da giovani di circa trent’anni. Infatti, Umberto Terracini 26 anni, Palmiro Togliatti 28, Antonio Gramsci 30, Amadeo Bordiga 32, Ruggero Grieco 28, Bruno Fortichiari 29, Angelo Tasca 29. Giovani che avevano già alle spalle alcuni anni di esperienze politiche e culturali significative e in una epoca in cui a quella età si era adulti.
I primi quattro fanno parte del gruppo dell’Ordine Nuovo, rivista torinese che si alimenterà al fuoco della esperienza del “Biennio Rosso”.
Umberto Terracini in una conversazione con Mario Pendinelli dal titolo “Il sogno di cambiare l’Italia”, alla domanda se alla base della fondazione del Pci ci fosse anche una rottura generazionale risponde: “Forse parlando di una rottura di generazione si corre il rischio di farsi suggestionare un po’ dal linguaggio attuale, dalle cose che stanno avvenendo da alcuni anni sulla scena politica italiana e più in generale nelle coscienze di molti giovani di oggi. Si può capire perché siano stati particolarmente dei giovani e dei giovanissimi ad assumere l’iniziativa per la creazione di un partito veramente rivoluzionario. Basta ricordare che la Federazione giovanile socialista, guidata da Luigi Polano, aderì quasi per intero alla scissione. Noi giovani e giovanissimi avevamo appunto, come lei ha ricordato, una formazione e un rigore culturale che mancava largamente ai dirigenti massimalisti del Partito socialista. I riformisti avevano una loro cultura; un certo senso della storia. I massimalisti no. Non voglio dire che i dirigenti massimalisti fossero particolarmente aridi o insensibili agli insegnamenti teorici. – aggiunge il Presidente della Costituente – Era, anzi, tutta il contrario. Però in genere mescolavano in modo approssimativo teorie e dottrine di segno anche opposto. Sicché non avevano una dignità culturale, e questo spiega perché in fondo fossero i riformisti, benché minoranza, a guidare di fatto il partito. Così si può capire facilmente come i giovani rivoluzionari furono i primi a staccarsi dal massimalismo e a confluire nelle frazioni comuniste. Quando ci costituimmo in gruppo dirigente delle frazioni comuniste all’interno del Psi, noi così giovani, compimmo in qualche modo anche un atto di orgoglio, forse di presunzione. E i nostri avversari socialisti più anziani non ci risparmiarono le frecciate più beffarde. Allora né noi né loro potevano pensare che avremmo formato un grande partito.”
Siamo a Torino, la città dell’esposizione per il 50esimo anniversario dell’unità d’Italia, emblema del trionfo dell’industria che si sviluppa e che induce la speranza positivistica di un futuro pacifico e ricco per tutti. In inverno il gruppo si ritrova ad un comizio di migliaia di operai dell’auto, della Fiat, dell’Itala, della Diatto, della Lancia, dopo uno sciopero di tre mesi, durissimo e sfortunato, che si conclude con una disfatta. L’idillio tra la borghesia liberale e il socialismo riformista di Turati e Prampolini sta naufragando. D’altra parte gli atteggiamenti intellettuali dediti all’irrazionale con i miti della velocità, della violenza, del sangue dell’aggressione aggregano a destra e in campo socialista l’intransigenza bellicosa: le pose rivoluzionarie hanno il loro esempio nel giovane direttore dell’Avanti, Benito Mussolini.
3. Fare come la Russia
L’elemento decisivo che porta alla scelta di distaccarsi dal Partito Socialista Italiano è la rivoluzione bolscevica della Russia sovietica. “Il comunismo è il governo sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese” scriveva Lenin nel 1920. I consigli dei soviet diventeranno il modello dei consigli di fabbrica. È un’idea-forza che i giovani della frazione comunista ricavano da tutta l’esperienza russa ed europea dei Soviet e di simili organismi operai autonomi e trasferiscono nella realtà operaia torinese e non solo. Il “fare come la Russia” si traduce nell’azione del moto proletario che si deve esprimere in forme proprie, dare vita a proprie istituzioni: questo il nocciolo della teoria dei Consigli.
Un altro viatico agli eventi di Livorno fra il 15 e il 21 gennaio 1921 – per cui i rappresentanti di 58000 militanti socialisti della frazione comunista si scindono dal grosso del partito e fondano il partito comunista d’Italia, sezione della internazionale comunista – sarà l’azione culturale e padagogica che in particolare Gramsci metterà in atto con la sua attività politica e giornalistica. Egli promuove attraverso “Il grido del popolo” il concetto e l’organizzazione di una “rivoluzione culturale” considerata come parte costitutiva e determinante del movimento di emancipazione dei lavoratori, tanto quanto la lotta politica, l’associazione sindacale, economica e cooperativa.
Scrive infatti Gramsci: “Per i proletari è un dovere non dover essere ignoranti. La società socialista senza privilegi di casta e di categoria, per realizzarsi compiutamente, vuole che tutti i cittadini sappiano ciò che i loro mandatari decidono e fanno. Il problema di educazione dei proletari è problema di libertà”.
La forza e la portata della elaborazione culturale e politica che il gruppo dirigente comunista aveva prodotto ha fatto sì che il neonato Partito abbia attraversato la storia di grandi momenti e abbia gestito grandi cambiamenti nell’interesse non solo della classe operaia ma di tutto il Paese. Si pensi al ruolo fondamentale avuto nella lotta alla violenza squadrista del primo fascismo, la coraggiosa opposizione alla dittatura fascista nella clandestinità, al confino e nelle carceri, alla progettazione del Partito nuovo del 1944, al ruolo di egemonia nella lotta partigiana, nell’elaborazione della Carta Costituzionale, nella ricostruzione postbellica, nella difesa e nella affermazione dei principi costituzionali, nella elaborazione della via italiana al socialismo, nelle contraddizioni della spinta del 1968, nella lotta al terrorismo, nella solidarietà nazionale ed internazionale, fino alla caduta del muro di Berlino. In queste temperie, il Partito ha avuto costantemente la forza e l’intelligenza di rinnovarsi, formando nuovi quadri dirigenti che hanno sempre tenuto presente l’interesse del Paese.
Mauro Scoccimarro scrive in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione del Pci: “Sono trascorsi più di cinquanta anni da quando nel gennaio 1921 si è costituito il Partito Comunista Italiano. In questo periodo storico sono avvenuti eventi straordinari che in breve tempo hanno mutato il volto: si sono compiute profonde trasformazioni economiche, politiche e sociali come mai era avvenuto in passato. Rievocare i cinquanta anni di storia del Partito comunista italiano significa affermare che il suo passato è garanzia del suo avvenire.”
Per dar conto della forza e della importanza della fondazione del nuovo partito della classe operaia e come in un solo anno si fosse radicato nella realtà politica italiana, val la pena di leggere un opuscolo di Maffeo Pantaleoni intitolato “Bolscevismo italiano” editore Giuseppe Laterza e figli Bari 1922. Professore ordinario di Economia politica alle Università degli Studi di Napoli, Pavia e Roma, fu un esponente dell’economia neoclassica, nonché direttore del Giornale degli economisti dal 1890 al 1924. È celebre la sua accanita difesa della politica economica del laissez-faire. Dal settembre al dicembre 1920 fu ministro delle Finanze della Reggenza Italiana del Carnaro, presieduta da Gabriele D’Annunzio. Fu tra i più attivi economisti ad appoggiare prima il nazionalismo e poi il fascismo, dirigendo con l’amico Giovanni Preziosi la rivista “La vita italiana“. Poco prima della sua morte, il 1º marzo 1923, fu nominato da Vittorio Emanuele III, Senatore del Regno.
Alla base del pensiero dell’economista (che ha anche insegnato all’Università di Bari) vi era la sempre più radicata persuasione che individuava nel socialismo il più insidioso nemico della liberal-democrazia (in versione individualista) e del progresso. Nel suo scritto compaiono una serie di collusioni e favoritismi – a suo dire – fra “bolscevichi” e amministrazioni comunali ed enti pubblici, non ultimo lo “scandalo” del trattamento economico del corpo dei pompieri, ben noto per essere il privilegiato fornitore di guardie rosse all’amministrazione, o la multa pagata dal comune per contravvenzione comminata ad un camion dei pompieri usato nel giorno seguente alle elezioni per festeggiare la vittoria socialista! E, ancora, la consegna di licenze ai conducenti delle vetture pubbliche che “venivano rilasciate agli iscritti all’organizzazione di classe, di marca bolscevica”. Pantaleoni dà anche testimonianza dell’intensa lotta per l’espropriazione dei grandi latifondi incoltivati: “Le cooperative non ebbero che una ossessionante preoccupazione: avere la terra, averla con le buone o con le cattive; con le minacce o con le invasioni violente, magari con i conflitti sanguinosi; ma averla in qualunque modo”. Lo stesso disegna il quadro della situazione politico sociale e delle lotte che anticipano la fondazione del Pci: “La aggressione socialista all’ordinamento sociale, attuale prende due forme, ora alternativamente, ora cumulativamente: le forme della violenza e l’altra della legiferazione. Quella della violenza si è veduta in Russia e in Ungheria, su grande scala: e nel Ferrarese, nell’Emiliano, a Milano, a Torino, a Firenze, su scala minore; quella della legiferazione e della penetrazione nella amministrazione e nella burocrazia, la si è veduta da quaranta anni a questa parte, un po’ dovunque, ma particolarmente in Italia. Il timore della prima forma, e assaggi di quella che essa porti seco, la speranza di evitarne i danni più gravi, hanno resa la borghesia, già da molti anni, pronta a cedere ora una posizione ora l’altra…”.
Ancora uno sguardo sulle occupazioni delle fabbriche dirette dalla frazione comunista degli ordinovisti e sul consenso che esse inducevano, viene posto dalla descrizione di Pantaleoni : “…riuscì di sorpresa per i borghesi vedere essere lecito, o a loro derisione essere qualificato una “contravvenzione”, la occupazione violenta delle fabbriche da parte degli operai, e poi guardie rosse difenderne gli approcci con i fucili, bombe a mano e mitragliatrici e servizi logistici regolari impiantarsi e funzionare in piena luce meridiana- riuscì di sorpresa vedere ferrovieri far scendere dai treni truppa che veniva traslocata, finanche carabinieri e guardie regie, e truppa dover scendere dalle navi quando ciò ordinava la gente di mare bolscevizzata dal deputato Giulietti- riusc1 di sorpresa vedere bersaglieri rivoltarsi capitanati da bolscevichi… Sfido io che non sapessero più dove stessero, se in Russia o in Italia”.
Anche sulle contraddizioni fra il partito socialista e il nuovo partito comunista abbiamo, infine, una testimonianza nel pamphlet di Pantaleoni: “Il partito socialista, in ragione delle vicende delle giornate, talora credeva al trionfo del movimento bolscevico da esso promosso, e allora se ne attribuiva pubblicamente il merito; talora intravedeva la sconfitta e allora sceverava la sua responsabilità da quella di costoro che esponevano la pelle nella causa comunista”.
4. Conclusioni
Sono trascorsi cento anni dal 21 gennaio 1921. Il Partito Comunista non esiste più, dal 1989 in poi è cominciato un processo di riflessione storica e delle decisioni politiche su cui si possono avere differenti e anche contrastanti giudizi.
Per oltre 80 anni comunque il Pci fondato a Livorno è stato protagonista della storia del nostro Paese e i suoi uomini hanno avuto nelle vicende italiane e internazionali ruoli da protagonisti. I comunisti sono stati all’avanguardia della lotta alla dittatura fascista, organizzatori e dirigenti della lotta partigiana, protagonisti della elaborazione della Carta Costituzionale, sostenitori delle lotte di emancipazione e dei diritti dei lavoratori, difensori della pace e delle libertà democratiche e, della solidarietà, promotori di giustizia e uguaglianza, delle lotte delle donne e dei giovani [Il comunismo è la trasformazione secondo giustizia della società. L’”assalto al cielo” – questa bellissima immagine di Marx – non è per noi comunisti italiani un progetto di irrazionalistica scalata all’assoluto”. Intervista a Berlinguer, in Critica Marxista, 1981].
È inoltre importante notare che, escludendo il periodo postbellico dei governi di unità nazionale ispirati dal carattere unitario dei partiti del CLN, malgrado il partito comunista non abbia mai partecipato al governo del paese, la sua azione e le sue scelte nelle regioni in cui governava attraverso sindaci e assessori eletti nelle sue file, ha generato modelli di scelte politiche e amministrative, soprattutto nell’ambito del welfare, che hanno largamente influenzato la politica e la promulgazione di leggi nazionali “costringendo” le forze conservatrici al governo a cedere alle pressioni della società e della storia.
I dirigenti e gli stessi militanti nel corso della storia sono stati anche esempio di dirittura morale, di vite esemplari e rigorose, di fedeltà ai principi pagati anche con la vita, elemento che ha alimentato l’idea della diversità dagli altri partiti.
“È a questa scuola di probità e di sincero e onesto spirito di solidarietà collettiva […] che si vennero formando, nella lotta, nei pericoli, nel sacrificio, i quadri dirigenti comunisti e un costume di lavoro che fecero del nostro un partito diverso non solo dagli altri aggruppamenti antifascisti, ma anche da molti altri partiti comunisti […]. Se nello spirito di disciplina e di sacrificio, se nel centralismo, se nel voler fare politica in qualsiasi situazione per incidere sul suo sviluppo e guidarlo verso le necessarie soluzioni, consiste il segreto della nostra sopravvivenza e del nostro continuo progredire, dobbiamo concludere che questo spirito e questa volontà sono sempre stati […] nel nostro partito, sono stati e sono tuttora causa determinante e necessaria dei progressi che ci hanno sempre accompagnati”: queste le parole di Luigi Longo, segretario generale del Partito Comunista Italiano dal 1964 al 1972 e principale dirigente delle Brigate internazionali in Spagna, nonché capo politico-militare delle formazioni partigiane comuniste della Resistenza Italiana.
I comunisti (ma non solo loro), gli studiosi, i ricercatori, consapevoli della importanza e dell’originalità della vicenda del comunismo italiano, hanno sempre dibattuto criticamente della propria storia che si è incrociata con la storia nazionale, come ci testimoniava Paolo Spriano nel 1971 in un quaderno monografico di Critica marxista: “La riflessione sulla propria storia è uno strumento prezioso di mobilitazione, di orientamento, di educazione, è parte viva dello stesso sforzo di elaborazione politica attuale del partito. Si è avviato un interesse, una curiosità, un gusto di partecipare ad una ricerca collettiva che indubbiamente (su questo gli esempi sono già probanti) segnano un capitolo nuovo, non soltanto nella “storiografia” ma nella storia del Pci, c’è una passione di verità e di dibattito che darà certamente frutti”.
Giorgio Amendola, ancor più chiaramente, afferma che la “storia va ripensata e riscoperta incessantemente, e non soltanto per esaminare criticamente i risultati delle ricerche che apportano sempre nuovi elementi di giudizio (documenti ritrovati negli archivi, dati economici, testimonianze), ma soprattutto per trovarci, volta a volta, le radici storico politiche, necessariamente varie, dei problemi sempre nuovi, che gli sviluppi della lotta attuale ripropongono. Lo studio della storia, diventa, così, coscienza della propria collocazione, diventa cultura, cioè, per un partito rivoluzionario, condizione per esercitare la propria funzione egemone”. [Giorgio Amendola, I difficili inizi del partito comunista, in Rinascita 2 giugno 1967]
Abbiamo finora celebrato la memoria, che va mantenuta alta e critica, di quell’evento di cento anni fa. Che senso e che utilità può avere oggi rievocare la memoria di quell’evento sicuramente decisivo per la storia del novecento?
Oggi, la modernizzazione, la globalizzazione, l’impetuoso sviluppo tecnologico, gli atteggiamenti privati e collettivi, le mutazioni dei canoni estetici, la consapevolezza ecologica e dei diritti umani, le mobilitazioni dei giovani, le trasformazioni sociali ed economiche e le grandi migrazioni dei popoli, hanno modificato le relazioni fra gli uomini, la lotta di classe vede nuovi protagonisti e nuove modalità.
Hanno ancora validità le analisi e le elaborazioni di Lenin sullo stato e sulla organizzazione politica? Hanno attualità le rigorose e lucide analisi di Gramsci, Togliatti e di altri sulla condizione delle classi operaie e contadine italiane e sui compiti delle avanguardie rivoluzionarie?
Forse no, forse dobbiamo aggiornare le nostre analisi e le nostre ricerche.
Non possiamo dirlo con certezza.
Sappiamo soltanto che il coinvolgimento delle nuove generazioni nella ricerca incessante, nella battaglia delle idee e nello sviluppo della conoscenza, ci può aiutare anche a dare un giudizio più ponderato.
Maria Teresa Santacroce e Aldo Muciaccia
Ricostruzione storica puntuale accorata e nostalgica. Il “comunista” Indro Montannelli (che sulle pagine del Corriere nella sua rubrica “LA STANZA” aveva fatto l’endorsement per la DC pero’ turandosi il naso) rispondendo a un suo lettore che gli rimproverava l’ambiguita’ disse:”Caro Amico mio il problema e’ solo uno:” NON CI SONO PEZZI DI RICAMBIO”.
MDal 1921 (senza fare dietrogua e nostalgia canaglia) purtroppo non ci sono stati pezzi di ricambio specialmente dalla morte di Berlinguer in poi.
Molto interessante, ricco e ben fatto.
Grazie ! È facilmente fruibile nell’era dei social, è una bella scoperta.