Il ritratto della disintegrazione psichica e del processo di guarigione di una donna fatta a pezzi: “Pieces of a Woman”, il primo film in lingua inglese di Kornél Mundruczó con una magistrale Vanessa Kirby

Già il titolo in inglese, “Pieces of a Woman”, o meglio la sua traduzione letterale in italiano (“Pezzi di Donna” oppure verosimilmenteUna donna a pezzi), dice tutto di questo prezioso film di recente uscita, il primo in lingua inglese diretto dal giovane regista ungherese Kornél Mundruczó , magistralmente interpretato da Vanessa Kirby, che ha vinto la Coppa Volpi alla 77° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia come migliore attrice protagonista.

Il film si divide idealmente in quattro parti.
La prima parte è una lunga scena di quasi mezzora, altamente realistica che costituisce la cifra e, quindi, il via al dramma successivo. Martha è una futura mamma che ha scelto di partorire, d’accordo con il suo compagno, in casa, per “far vedere subito le cose belle a mia figlia”, dirà lei stessa alla fine. Ma prima di lei viene inquadrato in movimento il suo compagno Sean (Shia LaBeouf) , un operaio, un muratore, che sta ricostruendo un ponte che sta per crollare a Boston. Martha è brillante, affettuosa e ,nonostante non abbia ancora partorito, è già materna, molto materna, mentre Sean è burbero, semplice e, secondo la sua stessa descrizione, rozzo. Sean non va per niente a genio alla famiglia borghese di Martha, in modo particolare alla madre (Ellen Burstyn), un po’ dispotica, un po’ svampita, insomma una vera “suocera” canonicamente intesa. Però i due giovani, pur con le loro diversità, si amano e sono pronti ad abbracciare la loro figlia, anzi fremono dalla voglia di vederla nascere, così da, come detto, propendere per la scelta, poi rivelatasi infelice, di un parto programmato in casa con una levatrice che aveva fatto loro da istruttrice nella preparazione alla nascita. Quando a Martha si rompono le acque, Sean, dando fondo a barzellette e battute stupide per rilassarla, chiama la sua ostetrica, che si dichiara impegnata in altro parto e, come da accordi, li affida ad una sostituta, Eva (Molly Parker) che li guiderà, al suo posto, nella nascita della figlia. Ma il parto si presenta complicato. Nasce una bella bambina che la madre guarda solo nel viso, negli occhi, non accorgendosi dei piedi e delle mani blu, indici di una asfissia in atto, che poi le fermerà il battito cardiaco nonostante l’intervento tardivo dell’ambulanza dell’ospedale accadimenti che Martha ricorderà solo nel finale del film, osservando le foto scattate dal suo compagno.
E qui finisce la prima parte del film.
Con l’eco delle grida animalesche di Martha/Vanessa Kirby, che si sforza per partorire,  e l’incoraggiamento tenero di Sean.

Poi (ed è la seconda parte) vediamo Martha che, bardata in un cappotto rosso, ritorna al suo ufficio per lavorare. E’ una donna apparentemente forte, ma distrutta, in forte solitudine, sensazione palpabile in una splendida inquadratura: sola, appunto, con indosso il suo cappotto rosso, cui fa da sfondo gelido e da contrasto un lungo palazzo completamente bianco. E lo si vede dal suo incedere, dal suo autoisolamento, dai suoi capelli che indicano un after doloroso. Soltanto da queste immagini alla Spielberg si apprende che la bambina è morta, che si è verificata la tragedia, il dramma che poi il regista racconta con immagini e poche parole dette da Martha: la scelta sbagliata di un parto in casa.
Non sembra di stare al cinema, ma di fronte ad una pièce teatrale, soprattutto per la decisione del regista (che parte da una sua personale e simile esperienza drammatica) di adottare il piano sequenziale delle immagini.

E qui entriamo nella terza parte del film.
Martha sola, distrutta, ormai entrata nel buio dei sentimenti con il suo compagno.
Dopo una uscita in un piccolo bistrot, dove si scambia appena alcuni baci con un bel ragazzo di colore, rifiutandosi maggiori coinvolgimenti. torna a casa nella indifferenza più assoluta e un equilibrio psico-fisico assolutamente delicato e precario. Ma  la solitudine, la distruzione mentale di una madre che ha visto la figlia per pochi minuti per poi perderla definitivamente, aprono lo schermo dove si assiste ad una sequenza di sesso brutale con Sean, che cerca aggressivamente di possederla prima di fuggire visibilmente arrabbiato, convinto che potrà dimenticare il dolore per la perdita della figlia esclusivamente recuperando la sua compagna sul piano sessuale, cioè scopandola con una furia da stupratore. Scena di un crudo realismo che lascia chi vede il film inchiodato ad una necessaria domanda: con il sesso si  possono recuperare i momenti di complicità dell’amore perduto e nuovamente illuminare il buio dei sentimenti? Certo ognuno di noi affronta la tragedia della morte di una figlia, la metabolizzazione di un dolore indicibile secondo le proprie coordinate mentali, appunto “non coordinate” nel contesto. Insomma affronta il dolore  a modo suo. E quindi, seguendo i due protagonisti, si spazia dal disordine dei propri sentimenti fino ai tentativi, nascosti, di dimenticare il dolore scopando. Ed è difficile raccontare il dolore di Martha, resa con una recitazione fatta appena di pochissime parole, molti silenzi altamente espressivi, molte espressioni del volto, che il regista mette in evidenza con piani sequenziali di alto valore artistico. Si, perché Martha va avanti seguendo le sue personalissime coordinate, quelle di una madre distrutta: è irascibile con la sorella, prende la decisione autonoma di offrire il corpo di sua figlia alla scienza per scoprire perché è morta, di non partecipare al processo contro l’ostetrica, nonostante la madre e la sorella tentino di persuaderla in tal senso; insomma per la madre di Martha si guarisce dall’ossessione perseguendo in Tribunale la levatrice Eva sottoposta a procedimento penale.

E qui “entra” in maniera drammatica la quarta parte del film, con la madre di Martha che, seguendo dettami matriarcali, riunisce la famiglia per una cena a casa sua, con il proposito, misto a speranza, di convincere Martha ad andare avanti con la causa penale per guarire la sua ossessione. Ma Martha si oppone, con pochissime parole e molti silenzi che nel piano sequenziale sono molto più rumorosi di parole vacue, senza significati profondi. E qui viene fuori la grande Ellen Burstyn con il racconto di come la fortuna l’ha salvata da bambina, alla nascita, esternando per la prima volta e riaprendo una ferita vecchia di decenni. In definitiva, un monologo teatrale in cui si registrano il dolore antico e la dolcezza attuale, in una forma di rimprovero e di implorazione.

Però (e qui siamo nella parte finale del film) il centro del film resta Martha, la madre che ha perso la figlia, la donna così profondamente traumatizzata da assistere inerme alla distruzione di ogni sentimento, tra cui l’abbandono del suo compagno, che avrebbe voluto trasferirsi a Seattle a lavorare per dimenticare e rifarsi una vita insieme a lei; Martha, effettivamente, accompagnerà Sean in auto a Seattle per poi distaccarsene definitivamente, lasciandolo in mezzo al freddo e alla neve. E’ una scena secca, fredda, unica senza nemmeno una parola in cui si comprende appieno il titolo del film, una donna, una madre che sta cadendo a pezzi, un corpo costituito da un gruppo di nervi che cammina sola, parla poco, con occhi vuoti, attoniti. spalancati, manifestando la cifra vera della sua regressione mentale che cela la repressione verso una soluzione di comune esperienza. Perché Martha si ripiega in sé stessa e quando esce un po’ fuori dal suo io doloroso dà l’impressione, con il suo volto e il suo rumoroso silenzio, di stare per farla finita, annegando nel dolore dei suoi sentimenti.
E qui c’é il colpo, certo non di genio, ma prettamente realistico, con Martha che si avvia verso “la guarigione”, raccontata dal regista in maniera realistica e fortemente simbolica quando la protagonista si presenta in Tribunale per la causa contro Eva, la levatrice incapace, che risponde con compunzione e dolore alle domande del difensore dell’imputata, alle sue osservazioni su di una bambina nata asfittica con segni bluastri alle mani e ai piedi. E Martha che ricorda dolorosamente di non averla osservata se non nel suo volto, per poi scoprire (attraverso i negativi delle foto fatte dal suo compagno all’atto della nascita e mai sviluppate che lei scopre durante l’intervallo del processo) la verità, affermando alla fine la non colpevolezza della levatrice Eva, che piange a tale dichiarazione, E’ il primo passo verso la guarigione psichica con un danno già fatto e ineliminabile dal profondo del proprio io.
Qui il finale diventa fortemente simbolico sulla vita che ritorna, con la penultima scena che vede Martha aprire il piccolo vaso che contiene le ceneri di sua figlia per disperderle nel fiume a fronte di un ponte, quello dove lavorava il suo compagno, che è stato ricostruito e che non crollerà più, rappresentando simbolicamente la stabilità e il recupero alla “normalità”.
Insomma, quella implosione che serpeggia in sottofondo, nei meandri più segreti delle stimmate del cuore e dei sentimenti, si stempera nella scena finale ed è fortemente realistica perché evidenzia  sentimenti difficili da descrivere.
Siamo, infatti, in un piccolo bistrot di Boston con Martha, sua sorella e la madre e la visione di una scena, tra poche parole di indicibile significato e tenerezza, e Martha che accarezza e stringe la mano della madre e che colloquia dolcemente con sua sorella.
Ecco la mamma che ha perso la propria bambina che “sente” di ritornare  (come in effetti ritorna) nel grembo di sua madre, dalla quale si era allontanata in tutti i sensi.

Pieces of a Woman non è altro che il ritratto della disintegrazione psichica di una persona, una donna/madre in particolare, e del suo processo di guarigione per provare a tornare ad una normalità, seppur velata di dolore.
Certo “guarigione” e “normalità”. E “stabilità” mentale.
Però fermiamoci un po’, pensiamoci e domandiamoci: cosa significano guarigione e normalità? Si potrebbe citare come contrappasso al maschile “La stanza del figlio” di Nanni Moretti. Ma, attenzione, qui c’è qualcosa di più. C’è il distacco fisico della madre dalla propria bambina, uno strappo dall’utero, dal grembo materno da una parte e, dall’altra, lo strappo psichico, di una violenza inaudita, che è senza rimedio.
Assolutamente non emendabile, non guaribile.
Senza voler entrare in una disputa o gara sui dolori di serie “A” e di serie “B”, il dolore della madre che perde il proprio figlio è qualcosa di inenarrabile, in quanto si deve necessariamente entrare, penetrare, con molta difficoltà, nei meandri periferici e insondabili, oppure difficilmente sondabili e percepibili, del cuore e dell’anima di una donna non più madre, tragicamente.
Vale a dire un viaggio all’interno dell’animo femminile, dell’io femminile, nella negritudine irreversibile dei propri sentimenti, di un danno già fatto dove la mano sua, quella di Martha, che stringe quella della madre, costituisce un anomalo ritorno alla c.d. normalità,  al c.d. nuovo che l’aspetta, al “dopo”, insomma ad una “guarigione” che lascia molte, moltissime ferite in una donna/madre, riducendola, come dice il titolo del film, soltanto a “pezzi di donna”, pezzi di un animo distrutto.
Irreversibilmente e per sempre.

Nicola Raimondo

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