Ho letto Stai zitta di Michela Murgia.
La verità è che l’ho comprato più per affetto che per convinzione (“Basta Ali, un altro libro che parla delle donne, basta!” “E invece no, lo voglio lo stesso, mo me lo compro veloce veloce”).
Michela Murgia è da svariati anni che mi fa vedere e mi racconta cosa vuol dire essere donna su questo pianeta e mi accompagna stabilmente nel mio percorso di lettrice e di femminista. Lo dichiaro subito: sono una femminista convinta e praticante, nonostante non mi senta né rivoluzionaria, né ribelle, né eccezionale, come molti libri del filone editoriale femminista di questi anni amano raccontare le donne. E’ un filone molto quotato e presente sul mercato, che io evito accuratamente un po’ perché quegli aggettivi muscolari ed esaltanti mi mettono addosso un’ansia da prestazione non indifferente e un po’ perché ho il sospetto che non sono io il pubblico a cui si rivolgono, che, probabilmente, è di età inferiore alla mia: saranno le millenials, le ragazze che, davanti ad aggettivi come eccezionale e ribelle possono sognare e riflettere se stesse (e così sia, sognate in grande, sognate in piccolo, come vi pare, ma sognate, sempre!).
Voglio appellarmi all’emendamento del low profile e dire a gran voce: Signore e Signori, non mi sento particolarmente sfolgorante, come continuate a intimarmi dalle vostre copertine, ma sono femminista lo stesso, da quando ero una ragazzina neanche adolescente e mi si aprì un mondo intero leggendo di Jo di Piccole Donne. Il mio noviziato femminista ha le sue radici lì, in quella ragazza americana dell’800 che rinuncia ai suoi capelli lunghi tagliandoseli e vendendoli, che non si mette insieme all’unico, ai miei occhi, con cui avrebbe dovuto metter su famiglia, il bello e ricco Laurie e che vuole scrivere, mettere in scena le sue creazioni, insegnare.
Poi sono arrivate tutte le altre, tante altre. Fra le tante , “Le donne che corrono con i lupi” di Clarissa Pinkola Estes e i suoi archetipi junghiani che spiegano le fiabe e i processi di liberazione e di conoscenza di se stesse e dei propri talenti e desideri. Poi il “Secondo Sesso” di Simone De Beauvoir e il suo “donne non si nasce, si diventa” che è stata venduta e passata come una frase per “donne vere” (vere = femminili, forti, empatiche e tutto quello che vi viene in mente quando pensate a una “donna vera”) e invece lei voleva dire esattamente il contrario, ossia che noi donne non siamo nate avendo già scritto nel nostro DNA che avremmo avuto stipendi inferiori, che avremmo avuto paura per strada a camminare da sole, che avremmo trovato il soffitto di cristallo nella scalata di una carriera, etc., etc. No, quella roba lì nel nostro DNA non è menzionata, quella roba lì ce la siamo ritrovata come pacchetto regalo alla nascita: “Tieni, diventa donna, diventa un essere che faticherà dieci volte di più per ottenere le cose e che avrà paura cento volte di più di un uomo, ogni singolo giorno della sua vita”. E tante altre ancora: Virginia Wolf e la stanza tutta per me, l’urlo e i sussurri dei monologhi della vagina, Rebecca Solnit e il mansplaining, le gesta omeriche riscritte dalle donne, i libri sulle mestruazioni, quelli sulle dee e la Grande Madre e tanto tanto altro ancora.
Sono stati questi libri ad aprirmi gli occhi, a farmi vedere quali erano e sono le coordinate in cui mi muovo, in cui ci muoviamo, le ingiustizie. Mi hanno insegnato anche a diffidare di Fiorella Mannoia quando canta “tanto ci potrai trovare qui, con le nostre notti bianche, ma non saremo stanche neanche quando ti diremo ancora un altro sì” (e in passato ho lavorato per tanti suoi concerti e le ho viste le donne del pubblico cantare quella canzone con i lucciconi agli occhi, tutte rapite); ma del resto, è una canzone scritta da un uomo per una donna. Perché gli uomini (non tutti, la maggior parte) a noi donne ci vedono così, ci raccontano così, ci vogliono così, da sempre. E a non fidarmi tanto neanche di Sabrina Salerno e Jo Squillo e le loro donne, che oltre le gambe c’è di più; semplicemente perché mi sembra che sia uno dei primi manifesti di quell’empowerment al femminile con cui ci bombardano da anni e anni: Donna, non sei solo un corpo (ma davvero?), sei molto di più, sei i tuoi talenti, la tua forza, il tuo coraggio, la tua voglia di vincere, il tuo desiderio di fare carriera, la tua autodeterminazione, il tuo essere vincente; donna sì, ma vincente. E invece essere vincente, come mi raccontano e mi inducono a sognare, non è sempre possibile per motivi legati al temperamento, alle congiunture degli eventi, alla vita stessa che spesso fa a modo suo.
In tutte queste riflessioni, qui esposte in minima parte, maturate in tanti anni di onorata carriera da femminista convinta, un posto d’onore sull’altare delle mie Maestre ce l’ha, appunto, Michela Murgia. E ce l’ha perché di lei ho sempre apprezzato il dono della sintesi, l’eloquio preciso, lo sguardo fisso e penetrante, il maneggiare questa materia femminista in modo scientifico, senza fronzoli, senza aggettivi sfavillanti, senza il cipiglio della mental coach motivatrice, ma con un oggettivo senso della realtà per il quale quando lei parla di e alle donne io mi sento sempre inclusa, nella mia piccola vita, con i miei obiettivi ballerini e l’autostima spesso ammaccata.
“Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più” è il suo ultimo libro, edito da Einaudi, che passa in rassegna alcune delle frasi che noi donne ci sentiamo dire da quando siamo nate e che nascondono, definiscono, abbelliscono, edulcorano i dislivelli dei diritti di tutte noi. Tutto in 109 pagine densissime, riportate in un italiano mirabile, preciso, una scrittura efficace, ben costruita.
L’assunto da cui parte è che il nostro sistema sociale è basato e intriso in ogni sua cellula di patriarcato e maschilismo e che tutto questo si esplica attraverso il linguaggio e le parole. Non vi farò spoiler e non vi dirò quali sono queste frasi (più altre a fare da corollario a ognuna di esse), ma sappiate – oh Donne – che le avete sentite dire su di voi e a voi centinaia di volte, molte le avete finanche pronunciate convintamente.
La cosa che mi ha letteralmente scioccata è aver scoperto, nell’analisi puntuale e accademica che viene fatta, del patriarcato che è ancora dentro di me, una specie di forma mentis primigenia di cui porto ancora le tracce nel mio modo di pensare e nelle parole che utilizzo, accanto alla già nota propensione di noi donne stesse a perpetuare certi atteggiamenti che favoriscono il nostro svilimento personale, il nostro essere considerate oggetti giudicabili in base alla nostra desiderabilità, la nostra paura, il nostro sentirci fuori posto e fuori contesto.
La scrittrice spiega bene in quali forme la “cultura dello stupro” serpeggia tra di noi, con conseguenze quotidiane che fatichiamo a riconoscere come violenza e fornisce risposte possibili a chi ci accusa, davanti a un umorismo becero, di non saperci fare una risata, di non avere senso dell’umorismo; quante volte ci è successo di essere accusate di essere “pesanti” perché non capiamo lo scherzo e l’ironia a sfondo sessuale? È la stessa ironia e goliardia che permette, per esempio, a certi gruppi Telegram, di diventare piattaforme per la condivisione di video privati, l’anticamera del revenge porn.
E non è esagerazione; certo i livelli di violenza sono diversi tra loro, ma la matrice è sempre la stessa: il maschilismo, il patriarcato.
Si arriva naturalmente a parlare della declinazione dei ruoli lavorativi al femminile sempre per quel discorso iniziale dell’importanza delle parole, abbiamo solo quelle, abbiamo il dovere di utilizzarle per descrivere e raccontare la realtà, la verità.
Michela Murgia mi dà sempre, anche con questo libro, qualche strumento in più in questa lotta quotidiana che è essere nata donna in un mondo pensato e costruito dagli uomini, in cui ingiustizia e paura sono e saranno due elementi da indagare, conoscere, gestire, arginare, combattere. Io ci sono dentro a questa lotta e, ora che ci penso bene, nel mio, a volte sommesso, altre tonante, combattimento quotidiano, che è parte di un movimento di liberazione collettivo, ci sta la tenacia della rivoluzione, il fuoco della ribellione e l’eccezionalità delle grandi imprese.
Alla fine, rivoluzionaria, ribelle ed eccezionale anche io.
Alida Melacarne