Rada Akbar è una fotografa di 33 anni, profuga da bambina con i suoi genitori verso il Pakistan, era tornata in Afghanistan, dove stava contribuendo a costruire il Paese che sognava.
La testimonianza di Rada Akbar inizia da lontano, dall’8 marzo scorso, da quando, durante la mostra che teneva ogni anno in quella data, aveva lasciato sedie vuote per ogni attivista e intellettuale ucciso dall’oscurantismo talebano, che non si è mai completamente sopito.
A giugno Akbar scriveva:
C’è un equivoco a livello mondiale sulle donne afgane: si pensa che siano vittime e debbano essere salvate. O che non siamo in grado di definire le nostre priorità. Io volevo cambiare questa percezione. Perché la storia delle donne afgane non comincia dopo il 2001; abbiamo una storia ricca e lunga.
Questi giorni sono molto duri. Mi sento molto vicina alla morte. Ogni giorno è come fosse l’ultimo. Potranno uccidermi o rimuovermi, il mio corpo fisico, ma non potranno mai uccidere il mio spirito. Non potranno rimuovere o cancellare i miei pensieri. I miei pensieri passeranno alla prossima generazione con o senza di me. E io non li perdonerò mai.