Cos’è “Dune” di Denis Villeneuve per una non appassionata di fantascienza?
“Dune (Dune: Part One)”, prima di due parti della trasposizione cinematografica fatta da Denis Villeneuve del primo ciclo di romanzi di Frank Herbert (1965), ha creato attesa, per i fan della fantascienza, per chi era appollaiato a cercare qualcosa di meglio o di peggio della versione di David Lynch del 1984, per i cultori della chimera sognata da Alejandro Jodorowsky, per il cast (inter)stellare (Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Dave Bautista, Stephen McKinley Henderson, Zendaya, Chang Chen, Sharon Duncan-Brewster, Charlotte Rampling, Jason Momoa e Javier Bardem, tra gli altri) e per un marketing furbesco, che l’ha spinto con trailer che strizzano l’occhio alle grandi saghe fantasy e fantascientifiche, da “Star Wars” a “Il Signore degli Anelli”.
Quando una mia carissima amica, lo scorso luglio, mi ha parlato di “Dune”, rientrando da una gita in auto, attraversando le brulle colline tra Irsina e Gravina in Puglia (altra ribalta del cinema di questi giorni, col nuovo 007), in una strada in cui, per più di venti minuti, non abbiamo trovato anima viva.
I declivi desolati sembravano, per l’appunto, dune.
Fino a quel momento ero stata sfiorata da Jodorowsky, da Lynch e da Villeneuve per altri itinerari.
Sarà stato il racconto appassionato della mia amica, sarà stato l’indubbio stimolo che la storia offre, sarà stato il contesto scenico in cui ero immersa, mi sono convinta all’istante che il film andasse visto.
Sulla carta non sarei nemmeno un’appassionata di fantascienza, benché le eterotopie che essa offre aprano mondi, anzi, interi universi, sia nella realtà che vediamo, che grazie alle visioni dei suoi autori spesso ha conosciuto un’evoluzione possibile, che dentro di noi.
Non a caso, uno dei libri che mi ha cambiato (forse anche salvato) la vita è stato “Guida galattica per autostoppisti”, di Douglas Adams (1979), la cui lettura delle prime trenta pagine (no spoiler) mi ha causato un pianto di crescita che non ho modo di collocare in una durata e in un luogo, perché, a prescindere dall’ambientazione, mi ha messo in mano un utensile esistenziale che non mi ha più abbandonata, uno strumento di comprensione del vuoto e della paura.
Ed è proprio la gestione della paura, uno dei metamessaggi che fa la fortuna di “Dune”.
In un’epoca in cui la paura si è insinuata silenziosa o ha impattato con malattia, morte e miseria le nostre vite, avere dei supereroi calati dall’alto spesso non ci basta. Ci serve sapere, mediante l’epopea degli Atreides, che noi stessi, attraversando mondi sconosciuti e deserti sconfinati, sconfiggendo nemici che talora semplicemente intuiamo con la mente e con i sensi, provando a non farci risucchiare da mostri voraci, riusciremo a venire fuori da un nostro problema, o, quantomeno, a non farci troppo male.
“Fear is the mind killer. Fear is the little death that brings total obliteration.”
“La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta all’annullamento totale.”
Anche la simbologia della Spezia, una sostanza che crea assieme ebbrezza e percezione tale da permettere di viaggiare su sistemi stellari lontani, apre significati tutt’altro che univoci: magica, preziosa, fa la paura di una droga, esercita l’attrazione di un oblio più o meno temporaneo, soddisfa il bisogno di un abbandono di luoghi geografici o corporei che forse non vedremo più.
Sono stata davvero contenta di averlo visto, prima di tutto perché è stato un evento, sicuramente anticipato da un battage pubblicitario poderoso, che ha richiamato in sala un’eccezionale eterogeneità di pubblico. Li ho censiti all’inizio del pezzo e li ho osservati all’uscita dalla sala. C’erano gli irriducibili fan dei romanzi di Frank Herbert, perlopiù scandalizzati dalle semplificazioni fatte nel linguaggio e nella simbologia. C’erano quelli che “Lynch con i soldi e i mezzi di adesso l’avrebbe fatto meglio” o “Lynch era diverso” (e per qualcun altro “Lynch ha fatto un film inguardabile”). C’erano i traditi dal progetto irrealizzabile di Jodorowsky. C’erano i fan dell’americanata, soddisfatti, e a ragione, da un film muscolare, abbondante, rumoroso. C’erano i ragazzi e le ragazze incantati dal cast in forma pazzesca.
Ognuno, come ogni opera d’arte degna di essere goduta, ha visto un po’ di se stesso.
I capannelli vivaci, civili, curiosi, volti al confronto, una risorsa che abbiamo smarrito, fanno ben sperare in una realtà in cui ognuno possa esprimersi senza prevaricare il prossimo: una cosa che oggi sembra fantascienza.
Beatrice Zippo