Un carcere vuoto un piccolo gruppo di uomini, dodici detenuti (singolare numero), mura e sbarre circondate da una natura stupenda e invernale.
Quasi un esperimento di socialità obbligatoria.
Le guardie, i detenuti, due realtà che apparentemente si contrappongono come due monoliti, quasi due culture contrapposte, ma in realtà composite e umane, in cui i conflitti e le differenze interne spariscono quando si contrappongono e si confrontano.
Il tutto in attesa di un fantomatico quanto non conosciuto trasferimento.
Il tempo è come sospeso ed anche il luogo sembra, e probabilmente è anche nella realtà, un’astronave scaraventata in Sardegna e lì arenatasi, senza possibilità di andare da nessuna parte.
Il tempo l’ha consumata e oggi assomiglia ad un rudere in cui pochi e sperduti sopravvissuti continuano a perpetuare la rappresentazione della vita – carceraria – di tutti giorni.
La vita però riserva, come si dice, sempre nuove sorprese dietro l’angolo e l’arrivo di un nuovo non desiderato quanto imprevisto detenuto sconvolge in maniera, dapprincipio sottile ma poi sempre più incisiva, la percezione che il capo delle guardie ed il detenuto più pericoloso hanno del loro rapporto e della necessità che su quell’isola deserta la vita continui in modo accettabile per tutti.
Lo sviluppo umano della vicenda filmica viene rappresentato da figure precise che all’inizio non hanno abbandoni alla vita, ma confini definiti: da un lato le guardie attente e preoccupate di mantenere la calma e l’ordine fino al trasferimento atteso che non arriva e dall’altro i detenuti chiusi nel loro mondo che – nonostante tutto – esiste e resiste, sotterraneo, senza apparire ma con precise gerarchie.
Servillo e Orlando ci regalano due interpretazioni intense, teatrali, legate allo spazio di vita angusto (i giunti ovvero il luogo in cui i bracci del carcere confluiscono nel cerchio che li unisce), ultimo angolo di vita in un luogo di morte decrepito e in rovina.
Lo spazio della loro distanza si assottiglia sempre più e, ad un certo punto, sembra quasi si possa toccare ma è lo stesso Servillo/Gargiulo a fermare Orlando/Lagioia (don Carmine per i detenuti).
Non sono uguali, malgrado la vicinanza, malgrado il tentativo costante di Lagioia di modificare i rapporti e governare di fatto la piccola comunità; non sono uguali.
Il passato di ciascuno di noi esiste e pesa anche nelle navi alla deriva.
Le altre figure sono scelte con cura dal regista Leonardo Di Costanzo, cercando di rappresentare l’universo delle criminalità presenti nelle carceri italiane insieme alle diverse sensibilità delle guardie che sono presenti nella nostra piccola astronave.
Una menzione particolare per Fabrizio Ferracane, a cui è stato affidato il ruolo del carceriere, quello, tra gli ispettori, che non riesce a modificare il suo atteggiamento nei confronti dei detenuti e non può condividere lo spazio umano del capo degli agenti, ed una per il – sempre ottimo – detenuto Sasà Striano.
La fotografia e le musiche sono oggettivamente di alto livello.
L’uso del grandangolo per mostrare l’ex carcere di San Sebastiano a Sassari e l’utilizzo, parco ma intenso, di strumenti a percussione, sottolineano alcuni passaggi di particolare emozione.
Insomma, il film emoziona ed è ben interpretato, magari solo un po’ lungo.
“Il carcere di Mortana nella realtà non esiste: è un luogo immaginario, costruito dopo aver visitato molte carceri. Quasi ovunque abbiamo trovato grande disponibilità a parlare, a raccontarsi; è capitato che gli incontri coinvolgessero insieme agenti, direzione e qualche detenuto. Allora era facile che si creasse uno strano clima di convivialità, facevano quasi a gara nel raccontare storie. Si rideva anche. Poi, quando il convivio finiva, tutti rientravano nei loro ruoli e gli uomini in divisa, chiavi in mano, riaccompagnavano nelle celle gli altri, i detenuti. Di fronte a questo drastico ritorno alla realtà, noi esterni avvertivamo spaesamento. E proprio questo senso di spaesamento ha guidato la realizzazione del film: Ariaferma non è un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere.”
P.s.: si consiglia la lettura di un libro: Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla. Nuova edizione di Gherardo Colombo – Ponte delle Grazie 2020.
Marco Preverin