Anche se sei accanto a me, mi manchi: al Teatro Abeliano di Bari, il dramma di una famiglia travolta dall’Alzheimer ne “Il Problema” di Paola Fresa

A volte resta solo il profumo delle cose, delle persone. Il ricordo del loro odore.
Ma quando nemmeno i ricordi ci sono più, che cosa resta?

Andato in scena al Teatro Abeliano di Bari per la rassegna “To the Theatre“, “Il Problema” di Paola Fresa (prodotto dalla Fondazione Sipario Toscana, testo Menzione Speciale Premio Platea 2016) è il dramma di una famiglia travolta dalla malattia che sconvolge il suo sistema di legami e di consolidati equilibri.
A sottolineare la prevalenza del ruolo dei personaggi sul loro nome, sul palcoscenico un Padre, una Madre e una Figlia narrano il precipitare di una vita e il dolore che nasce dall’incapacità di trattenere con sé l’uomo che scivola nell’oblio a causa dell’Alzheimer. Madre e Figlia, dopo l’iniziale negazione del “problema”, cercano di combattere con le loro forze e i loro limiti la perdita di identità del Padre e di loro stesse, travolte da quello che ritengono un vero e proprio tradimento dei ruoli familiari che ciascuno aveva fino ad allora fedelmente ricoperto.
Disperato in questo senso è il grido della Madre quando si scaglia contro il suo amato compagno, la sua roccia, perché è venuto meno alla promessa di essere per sempre suo custode e rifugio. E disperata è la ricerca continua e ostinata delle due donne: riconoscere l’uomo che hanno amato in quell’involucro che ora racchiude un altro essere esasperante, involontariamente crudele, indifferente a ciò che è intorno e al loro stesso dolore.

Sembianze amate, ma inconoscibile cuore.
Come la vecchia radio posta in un angolo della scena, che gracchia alla ricerca di una stazione e non trova la sintonia, la mente dell’uomo è dapprima smarrita e confusa, e poi sempre più drammaticamente “altra”, sconosciuta a se stessa e a se stessa ostile.
La perdita di sé del Padre scortica brutalmente l’anima delle due donne.
Quando non si è più riconosciuti da coloro che amiamo, noi stessi perdiamo la nostra identità e assumiamo, nostro malgrado, un ruolo diverso, nella dolorosa consapevolezza di dover diventare altro: madri dei propri compagni, genitori dei propri genitori, figli dei propri figli.

La scenografia di Federica Parolini, nuda ed essenziale, si riduce ad una struttura metallica che simboleggia una gabbia, posta in risalto dalle luci di Paolo Casati. Le pareti, solo apparentemente invisibili, sono attraversate dalle due donne quando narrano l’una all’altra i propri sentimenti e le proprie paure, e dall’uomo nelle dolorose interazioni con il mondo esterno, con le istituzioni per le quali egli è semplicemente un numero, un test, la vittima di un brutale interrogatorio da parte di un medico.
Dolente e bellissima la scena in cui il Padre e la Madre ritrovano se stessi nei loro corpi nudi sotto la doccia, di nuovo insieme in una intimità che permette a entrambi di ripercorrersi “a memoria”, di riconoscersi nella consuetudine dei gesti, di tornare per un attimo a quello che sono stati uno per l’altra.
Disperata, anche se apparentemente liberatoria e consapevole, la scena finale in cui il Padre esce per la prima volta da solo dalla gabbia, come riconquistando, almeno per un attimo, la lucidità perduta.

Sarebbe stato facile per l’autrice colpire le corde più scoperte e sensibili del nostro cuore, perché il tema dell’Alzheimer, come dice la stessa autrice, ha un potenziale narrativo eccezionale. In realtà questo dramma intimo possiede un grande pudore di gesti e parole, e tuttavia scava lentamente nello spettatore, rivelando la sua complessità e facendo emergere vari piani di lettura.
Così la narrazione, scarna e quasi didascalica, diventa racconto complesso, svelando nel tempo intrecci non immediatamente percepiti.

Imponente nella sua fragilità, Franco Ferrante (il Padre) fa della misura e della gestualità contenuta (ma estremamente efficace) la sua cifra, scrivendo col corpo e con lo sguardo il declino del suo personaggio.
Intensa e disperata Nunzia Antonino (la Madre): commovente nell’iniziale negazione della malattia e nel suo testardo tentativo di trattenere il ricordo di sé nella mente del compagno di una vita; straziante quando ricorda il primo incontro con l’uomo.
Smarrita e arrabbiata Paola Fresa, autrice ma anche interprete, figlia che vorrebbe rimanere tale e che invece è costretta ad assumere un ruolo che non le appartiene, che arriva a gridare la propria rabbia per la normalità e la felicità delle vite degli altri, di chi non sa e non vive come lei dentro la gabbia.
Ad unire queste vicende, a scandire il corso degli eventi annunciandoli come “quadri con titolo”, la presenza eclettica di Michele Cipriani, cui sono affidati i ruoli esterni al nucleo familiare (il medico, l’impiegato della commissione per l’invalidità, il badante polacco), che riesce ad essere cinico, insolente, buffone, passando da un personaggio all’altro con leggerezza ed estrema naturalezza, legando i singoli episodi e dando continuità e colore al racconto.

Alla Fresa va il merito di aver scritto una semplice e potente storia d’amore, narrando con estremo rispetto un dramma in una narrazione a strati, mai retorica, che riesce ad essere nello stesso tempo delicata e brutale nella sua disarmante sincerità. La scelta della creazione collettiva, coordinata da Christian Di Domenico fa sì che l’intero spettacolo viva e respiri grazie alla relazione e alla sintonia profonda che i personaggi sanno creare fra di loro sul palco.

Quando le acque dell’emozione decantano, le personalissime emozioni dello spettatore si sovrappongono e si fondono con i gesti rappresentati sulla scena, e la chiusura del sipario apre dolorosamente la porta del cuore.

Imma Covino

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