Che quello di Cherish Menzo, performer surinamese, non sarebbe stato uno spettacolo ordinario, si è capito già entrando in sala.
Il drammaturgo e coreografo Benjamin Kahn ha pensato a una piattaforma che è una specie di passerella, con le luci e le sedie scenografate come fossero una runway della New York Fashion Week. Ad attendere il pubblico, una creatura con i tratti del volto e del corpo completamente coperti.
È una bambola zentai? È un’odalisca? È un manichino vestito alla rinfusa? Un rattling continuo è lì per stordire gli spettatori. Quando tutti sono ben fermi ai propri posti, il corpo inizia a spogliarsi e a roteare come fosse senza gravità in “2001: Odissea nello spazio” (S. Kubrick, 1968), sparato oltre l’antroposfera, fino a quando il suo respiro diventa l’unico suono percettibile.
Di lì, una forza scaturente, un brodo primordiale, sostenuto da una musica che i sottotitoli Netflix definirebbero come “somber” o “pensive”, connota un essere genuinamente black nella gestualità e nella figura, delizioso in contrasto con la musica da rehearsal di balletto che nel frattempo si è spanta.
È qui che parte la crisi di identità.
Il mondo è abituato a pensare alla danza come corpi bianchi e perfettini che si muovono a passi ben delineati, o a figure scomposte che ballano per strada. Poche altre variazioni.
Menzo invece si trasforma ancora, diventando una creatura statuaria, un crocevia tra una popstar, una principessa guerriera, un ladyboy thailandese, una voce che declamando un poema di eros e violenza offre una dimensione ferina di sé, quella fiera che alberga in ognuno di noi, ma che viene fuori appena usciamo dal ruolo che la società ci ha disegnato attorno. In questo senso la performance richiama il film “The Square” (R. Östlund, 2017).
Nella fluidità del suo corpo, Menzo riesce perfino a diventare un mostro marino tentacolare, assieme spaventoso e affascinante.
Non si fa in tempo a pensare a una dimensione faunistica, che la prospettiva cambia ancora.
L’abbiamo vista in “Titane” (J. Ducournau, 2021, Palma D’Oro), una ballerina mutante, un ibrido tra un animale meccanico e una macchina senziente, l’espressione di una sensualità artificiale come un’intelligenza spielberghiana o come un paradiso baudelairiano, offerta alla contemplazione senza ludibrio di un pubblico ormai rapito.
Avevo ancora negli occhi l’indimenticabile performance di teatro danza sperimentale di Bill T Jones al TEDVancouver del 2016. Egli ha affermato che “L’arte fa per me quello che fa la religione – organizza un mondo all’apparenza caotico. Perché è il mio modo di dare un senso al mondo e ai suoi cambiamenti”.
La performance si è tenuta nell’ambito della VII edizione del BIG – Bari International Gender Festival, con la direzione e coordinamento di Tita Tummillo De Palo e di Miki Gorizia.
Il programma si prepara ai festeggiamenti del secondo ed ultimo weekend.
Stasera, proiezioni di corti a partire dalle ore 20 ad AncheCinema, domani sera, dopo la presentazione del libro “Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma”, la serata prosegue con dj set e concerti a Spazio 13 (in chiusura, Barbara Laneige).
Sabato, gran finale ad AncheCinema con proiezioni a partire dalle ore 18 e con i dj set di Sasha Mannish e di Populous.
Info su https://www.bigff.it/big-alleanze-il-programma/?fbclid=IwAR2qSOL71OOuNbgajcY_gq7jgfMf-Gqte33zDbsZTtOz4xn-fQpFRspjDJI
Beatrice Zippo
Photo courtesy Bari International Gender Festival by Fabiano Lauciello