La magia comincia al nostro ingresso in sala.
Sipario aperto su una cucina, un tavolo, una ringhiera che farà da tramite con la vita della strada sottostante.
Il tempo di cercare il nostro posto, di mettere il telefono in modalità silenziosa, alziamo gli occhi e notiamo sul palcoscenico buio una figurina che si muove lenta ma decisa. Una donna sta trafficando tra le pentole. Si lava le mani, le asciuga con lo strofinaccio che aveva steso ai traballanti fili della finestra (una molletta le sfugge e cade, e lei con un gesto la manda a quel paese). Viene più vicina, si siede e comincia a sferruzzare, guarda lontano, non si sa cosa, e poi riprende a muoversi, ripete gesti fatti ogni giorno, tutti i giorni, per anni.
Torna a sedersi davanti a noi, sempre silenziosa, e ormai ci ha presi, ci ha portato nel suo mondo, ci ha fatto entrare nella sua vita costringendoci a tenere il ritmo dei suoi passi, dei suoi gesti. Le luci calano e ora finalmente può iniziare il racconto di una storia d’amore.
L’amore di due persone anziane, l’amore dei miei nonni, ma anche dei miei genitori, é un sentimento mai esibito, ben nascosto dietro rimbrotti e battibecchi. Una vita condivisa con silenziosa ostinazione, una liturgia di frasi e gesti che si ripetono sempre uguali, che alla donna (che coltiva ancora guizzi di entusiasmo e curiosità per il mondo che la circonda) stanno stretti, ma che rappresentano anche un rifugio rassicurante.
Non per nulla davanti alla precarietà, che nel finale esplode col malore di suo marito, lei oppone frasi del tutto inadeguate (“ti preparo un po’ di riso in bianco”) quasi a voler ritrovare quella normalità che sembrava noia e ora invece è tempo prezioso e fragile, sfuggente tra le braccia che sorreggono l’uomo che vacilla.
I due coltivano la dolorosa e mai espressa consapevolezza di essere rimasti soli, e allora si raccontano che la figlia non telefona perché troppo occupata, che chiude frettolosamente perché presa da mille cose. Ci si ritrova in due, come si era partiti, ma senza quella passione, quell’entusiasmo, quello sguardo stupito del tempo in cui tutto poteva ancora succedere.
Ci si ritrova in due, ma le forze e la mente vacillano, il passo si fa malfermo, la pazienza viene meno e l’ insofferenza per le piccole manie altrui diventa insopportabile. Si conoscono a memoria e si muovono secondo un rituale in cui si cerca conferma dei reciproci ruoli, in una liturgia rassicurante perché conosciuta e già narrata negli anni.
Alessandro Piva firma soggetto e regia di Quanto basta, interpretato da Lucia Zotti e Paolo Sassanelli, in scena al Teatro Kismet di Bari fino al 30 dicembre.
La bellezza di questo atto unico è tutta nella capacità dei due attori di togliere, asciugare, conservando equilibrio e misura. Soprattutto Paolo Sassanelli avrebbe potuto cercare di conquistare il pubblico ammiccando, sottolineando gli aspetti tragicamente comici del suo personaggio. E invece taglia, ferma il gesto, usa lo sguardo e il corpo per raccontare con pudore lo smarrimento davanti al declino, e riesce anche a farci sorridere con tenerezza, ci porta dalla sua parte. Non abbiamo il coraggio di dirgli che la telefonista che gli propone un nuovo appuntamento telefonico è lì solo per concludere un contratto e non perché lusingata dalla sua goffa cavalleria. Non riusciamo a dirgli di lasciar perdere la molletta caduta e facciamo il tifo per lui che cerca di recuperarla perché è così che si fa, perché si recupera anche una vecchia radio dal cassonetto della spazzatura, per ascoltare le cassette sfuggite alla moglie che butta, svuota con la stessa ostinazione con cui lui invece accumula e recupera.
Con Lucia Zotti – perdonatemi – fatico ad essere obiettiva: si muove come mia nonna nei miei ricordi di bambina e tornerei a teatro anche solo per guardarla mentre si destreggia tra i fornelli, mentre si asciuga le mani, mentre seduta incrocia le gambe proprio come faceva lei. Un bagno di nostalgia, una inaspettata carezza per l’anima.
Ci restituisce il ritratto di una donna stanca, esasperata, delusa, alle prese con il rimpianto di quello che poteva essere e non è stato, ma ancora ostinatamente viva e indomita.
Quanto basta è la storia d’amore di due persone che si conoscono a memoria, non ancora pronte al distacco, se mai fosse possibile esserlo.
“Come faccio io senza di te?”
È la paura che viene fuori davanti al pericolo, alla possibilità fino ad allora solo teorica della morte. Posso esistere io senza di te? Dopo una vita passata insieme, esiste un “io” che possa vivere o almeno sopravvivere senza il “tu” che per anni è stato accanto a noi?
Imma Covino
Grazie, Imma Covino per l’emozione che si coglie viva, vibrante, nelle tue parole. Grazie per la lettura profonda del nostro stare in scena. Grazie. Lucia Zotti.