Le Voci dell’Umanità – Capitolo VI: Voci senza libertà

La potenza distruttiva e livellatrice di un pensiero unico si misura essenzialmente nel pericolo che corre un artista, o un intellettuale in genere, nell’esprimere il proprio dissenso nei confronti del sentire imperante. Il dissenso, che sia costruzione di un dibattito, o opposizione verso la repressione dei diritti di parti della popolazione più o meno ampie, è alla base di ogni società democratica. Per questo, ogni potere che si regge sul consenso immediato, più che su una visione di benessere di lungo periodo per chi rappresenta, tende sempre ad annientare il dissenso, narrato come malcontento, in modi tanto più violenti quanto più grandi sono le disuguaglianze e le proteste che esse suscitano.

In questo quadro, gli artisti, per la propria visibilità, hanno una responsabilità doppia: in quanto portavoce del proprio tempo, essi scelgono spesso la strada dell’impegno sociale; in quanto esposti, sono sovente le prime vittime del potere dispotico.

Ne sapeva qualcosa Geraldo Vandré, pseudonimo di Geraldo Pedrosa de Araújo Dias. Nel 1968 presentò una canzone al Festival Internacional da Canção, la cui fase finale si teneva a Rio de Janeiro. La canzone che Vandré portò fu “Para Não Dizer que Não Falei de Flores” (“Per non dire che non ho parlato dei fiori”), meglio conosciuta come “Caminhando” (“Camminando”). Un testo esplosivo, un ritmo marciante e irresistibile.
Caminhando e cantando e seguindo a canção
Somos todos iguais, braços dados ou não
Nas escolas, nas ruas, campos, construções
Caminhando e cantando e seguindo a canção

Camminando e cantando e seguendo la canzone
siamo tutti uguali, a braccetto oppure no
Nelle scuole, nelle strade, campi, palazzi
camminando e cantando e seguendo la canzone

Troppo, per la dittatura militare instauratasi in Brasile quattro anni prima, detta anche “Regime dei Gorillas”. Costretto ad arrivare secondo, nonostante ventiquattro minuti di dissenso da parte del pubblico di più di tredicimila persone ad assiepare il Maracanazinho, Vandré lasciò il Brasile in forza dell’AI-5, un editto che costringeva all’esilio gli artisti che cercavano di opporsi alla censura. La sua canzone fu vietata, una damnatio memoriae subitanea e violenta. Dopo aver attraversato diversi Paesi, Vandré arrivò in Francia, per poi far ritorno in Brasile a metà degli anni Settanta. Oltre a lui, numerosi artisti furono costretti a lasciare il Paese, tra cui Toquinho e Vinicius de Moraes. Gilberto Gil e Caetano Veloso erano stati addirittura imprigionati prima dell’esilio. “Caminhando” fu cantata da Sergio Endrigo a Canzonissima 1968, col titolo “Camminando e cantando”, ma conta decine di cover, perché oltre ad essere potente, è bellissima. La cover più famosa è quella della cantautrice popolare Simone, e un’altra Simone è protagonista di questa tappa del viaggio.

Nina Simone, pseudonimo di Eunice Kathleen Waymon, è stata la celeberrima pianista nera, che si scoprì cantante perché le accademie di musica classica bianche rifiutavano le sue richieste di iscrizione. Non solo era una grandissima cantante, di stile unico e irripetibile, Simone era anche un’attivista dei diritti della comunità black. Perseguitata dal fantasma del rifiuto, dal segregazionismo che la attanagliava da bambina alle porte in faccia delle scuole musicale per bianchi, Simone aveva sempre dei demoni che, se da un lato le avevano spremuto le vene, tirandone fuori un talento unico, dall’altro ne rendevano le performance e i rapporti umani discontinui, soggetti a legami tossici, come quello con il marito e agente, e perpetrando ella stessa violenze e abbandoni nei confronti della figlia.

Negli anni Settanta, Simone abbandonò gli Stati Uniti, in aperta protesta contro il Governo federale, per gli scarsi sforzi a risoluzione dei problemi di razzismo nel Paese. Peregrinò a lungo, le tappe più lunghe si registrarono nelle Barbados, in Liberia, alla ricerca degli antenati deportati dagli Europei nelle piantagioni, e poi in Svizzera, uno Stato completamente diverso dalla Liberia, alla ricerca di ordine interiore. Qui, nel 1976, diede un concerto memorabile a Montreux. Una volta tornata negli Stati Uniti, Simone, semidimenticata anche per un boicottaggio delle case discografiche, poco inclini agli spiriti davvero liberi, provò a curare i suoi demoni, ma calmarli inaridì anche la sua vena creativa, restituendo una creatura che era, manco a farlo apposta, il fantasma di se stessa. Dopo un breve revival, per la scelta della sua “My baby just cares for me” per uno spot Chanel, tornerà a Montreux, per un concerto che non è la lontana ripetizione di quello del 1976. I demoni della fuga, andando via, si erano presi anche la sua anima.

Il prezzo estremo della protesta è la vita, e numerosi artisti hanno l’hanno pagato per essersi opposti a regimi oppressivi e oscurantisti. Il caso emblematico è quello del Grup Yorum, più che un collettivo, un progetto, attivo dal 1985, che ha annoverato numerosi avvicendamenti nella formazione. La fine tipica dei suoi componenti e delle sue componenti è quella della galera, una fine ancora più ovvia da quando in Turchia vige l’autocrazia di Erdogan. Musicisti e cantanti vengono incarcerat* con l’accusa di terrorismo, torturat*, le loro confessioni estorte. Nel 2019, dal carcere, alcuni componenti hanno iniziato uno sciopero della fame assieme a due loro avvocati. Lo sciopero è rimasto inascoltato, e dopo circa trecento giorni ha portato alla morte di tre elementi, la cantante Helin Bölek, il chitarrista Mustafa Kocak e il bassista Ibrahim Gökçek, meno che trentenni. Celebre è la loro versione di “Bella Ciao”, inno della resistenza italiana al fascismo, diventata, come dice Vinicio Capossela, “un salvavita ogniqualvolta un diritto viene calpestato”. Proprio “Bella Ciao” cantata dai Grup Yorum venne diffusa il 21 maggio 2020 dalle moschee di Smirne, in pieno Ramadan, dopo l’hackeraggio del sistema di filodiffusione. A seguito di quell’episodio, di cui non sono stati individuati tutti i responsabili, sono stati incarcerati attivisti dell’opposizione e perfino giornaliste e giornalisti. Una giornalista è stata addirittura portata in prigione come terrorista per aver ritwittato il video, includendo un emoji delle note musicali nel testo del tweet.

Se non fosse utile, la cultura verrebbe ignorata dai regimi. Se non avesse potere, l’arte non sarebbe considerata un gesto sovversivo. Ricordiamocene ogniqualvolta essa viene trattata come un fatto rinunciabile. L’arte è libertà, per questo a qualcuno dà fastidio.

Buon 25 Aprile, buona Liberazione!

Beatrice Zippo

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.