La sperimentazione è femmina.
Quale maggior crogiolo di novità conosciamo di un grembo materno, in cui miliardi di geni si shakerano assieme, per creare un cocktail geneticamente unico, una nuova vita? Per l’estremizzazione della creatività, vi sono addirittura donne venute fuori da un epico mal di testa invece che da un parto, ce lo dice la mitologia greca circa la nascita di Atena.
Per questo, “Experimenta”, il festival musicale multicodice che nasce con i patrocini dei Comuni di Alberobello e di Bari, con l’organizzazione della cooperativa Herostato e Time Zones e la media partnership di Rai Radio3, ha un cartellone in cui è garantita casomai la quota azzurra.
Un ricco programma, quattro località, molteplici musiche, scelte come al solito coraggiose (il festival è alla XXIII edizione), di artiste e artisti che normalmente dopo qualche anno circuitano su festival blasonati. Un segnale forte ai finanziatori, pubblici e privati, nel credere di più nel fiuto di queste organizzazioni per creare valore vero per il comparto cultura dalle nostre parti.
La prima a salire sul palco è la cantautrice e compositrice salentina Vera Di Lecce, che dopo aver partecipato ad alcuni festival negli USA ha il compito di rompere il ghiaccio di questa edizione, che inizia il suo viaggio all’Auditorium Diocesano della Vallisa.
La Di Lecce, in un vero one woman show, canta, danza, padroneggia l’elettronica. L’elettronica, già, chiave della sua musica, un synth in cui gli echi artici strizzano l’occhio a Björk, i bassi scavano nella carne e nella terra del Salento, non sia mai che dimentichiamo la poetica dei Nidi D’Arac, da cui Vera proviene, e i lirismi di rilevante potenza ci portano nel Sol Levante, dalle Cibo Matto in poi. La sintesi, tanto per restare in tema, è una vocalità concreta di canti di impianto anaforico, che assumono quasi la forma di mantra in Inglese. Le distorsioni chitarristiche e i campionamenti ben solidi dichiarano l’amore di Vera Di Lecce per i Joy Division, mediante la cover di “Heart and Soul”.
Il climax del concerto è nella sua “Painfall”, la danza di una Cho Cho San redenta e liberata, un’onda che inizia e finisce dal suono e si propaga nel ventaglio scenico. L’intero corpo di Vera Di Lecce assume plasticità in unione con la musica, assumendo ora forme allungate e futuristiche, ora di piramidi leonardesche. Infine, sempre sua, “Altar of love”, una ricerca nel pop, volutamente lieve, amabile, giocoso, pieno di speranza.
Un breve cambio palco ed è la volta di Chibo, cantautrice milanese che arriva con la sua chitarra e con un muro digitale.
Per immaginare Chibo, bisogna prendere le cantautrici sorridenti del nostro panorama, da Irene Grandi a Syria, e levare loro la patina di “sole, cuore e amore”, o, se preferiamo, bisogna prendere altre cantautrici più moderne, come Levante, e regolare al massimo la valvola del sarcasmo, incluso un bel linguaggio sboccato. Ma non è colpa sua: la sua opera nasce dalle scritte sui muri, che Chibo mette in melodia e musica, anzi, si chiama proprio “Canto i Muri”, e con essa si è esibita anche a Zelig e ha condiviso la scena con pesi massimi della comicità contemporanea come Fabio Celenza.
Si sa, le scritte sui muri hanno un modo tutto loro di raccontare la vita, dalle relazioni, alle dichiarazioni d’amore, ai massimi sistemi. Nascono così “Scopami poi ti spiego”, “Damme la pussy”, “Covid cazzo vuoi”, “Verba volant (schiaffi purem)”, che non mancano di divertire sia il pubblico, che Chibo.
Beatrice Zippo