“Chi lo ha conosciuto giura che fosse arrogante, diffidente, ombroso. In questo senso Django è davvero il simbolo della sua gente, ma anche del jazz, che, come i gitani, è mutante, umorale, mimetico.” (Filippo Bianchi)
Ascoltare la musica di Django Reinhardt significa tuffarsi in un vortice di emozioni e di ritmiche con i quarti ben scanditi, godere di melodie dolci e di funamboliche improvvisazioni, assaporare la poesia e la forza, la fantasia e la precisione di esecuzione.
Ma ripercorrere la sua brevissima e incredibile vita è un viaggio altrettanto coinvolgente e affascinante, e ci fa capire cosa sia un talento assoluto e dove possano portare l’ostinazione, la passione e la voglia di riscatto.
Paolo Sassanelli ci prende per mano e prova a raccontarci questo sogno nel suo spettacolo “La leggenda del favoloso Django Reinhardt”, andato in scena al Teatro Abeliano di Bari nell’ambito della rassegna Actor.
Con lui ci tuffiamo nei colori e nei profumi della Parigi degli anni ‘30, per poi viaggiare nelle atmosfere della capitale occupata e nel fervore del dopoguerra. Mai come in questo caso la narrazione della vita è strettamente connessa e rivelatrice dell’opera, e serve a conoscere e comprendere il come e il perché della vicenda artistica di un personaggio davvero rivoluzionario.
Django nasce due volte, entrambe in un carrozzone. La prima nel gennaio del 1910, in Belgio, dove si era accampata la carovana dei suoi genitori, zingari di etnia sinti. La seconda 18 anni dopo, nella Zone, alla periferia di Parigi, quando il suo carrozzone prende fuoco e lui, per le ustioni riportate, perde l’uso della gamba destra e di parte della mano sinistra.
Django è un bravissimo suonatore di banjo, strumento che suona per strada e nei locali da quando aveva 12 anni, e ha appena ricevuto una proposta di contratto per suonare in una delle orchestre più famose della capitale.
Perde tutto in una notte.
Rifiuta le amputazioni, rischia la cancrena, passa più di un anno di tormento e dolore, finché un giorno suo fratello depone sul suo letto una chitarra, strumento meno duro del banjo, e lui comincia a cercare il modo di suonarla con la sua mano deforme, usando solo l’indice e il medio della mano sinistra, poiché l’anulare e il mignolo hanno i tendini praticamente saldati tra loro.
Django impiegherà anni (racconterà Stéphane Grappelli che, fra collaborazioni intense e allontanamenti dovuti alla guerra e contrasti caratteriali, suonerà con lui fino alla fine della sua carriera) per riuscire a far “risalire” le due dita sul manico.
L’incontro con Grappelli porta all’incredibile collaborazione tra un violinista classico e un chitarrista che sta esplorando uno stile del tutto particolare, intriso di swing e di jazz europeo, qualcosa che è stato definito come gipsy jazz (o jazz manouche) carico delle sonorità della musica gipsy suonata tra Francia, Belgio e Spagna.
Nasce Le Quintette de Hot Club de France, che prevede solo strumenti a corda (tre chitarre, violoncello e violino) pur suonando un genere nato per ottoni e batteria, e che si impone ben presto a livello internazionale come il più importante gruppo jazz non americano. Arrivano il successo, le donne; il denaro entra velocemente e altrettanto velocemente esce dalle sue tasche.
Django è analfabeta (un giorno chiederà per pura vanità a Grappelli di insegnargli a scrivere il suo nome per poter fare gli autografi ai suoi fan) e non sa leggere uno spartito. Non ha idea di cosa sia una scala, eppure non sbaglia una nota, è un talento assoluto.
Arriva la seconda guerra mondiale in una Parigi che è diventata rifugio per i russi che scappano dalla rivoluzione bolscevica e per gli americani che fuggono dal proibizionismo e dalle persecuzioni razziali. Dalla capitale occupata partono treni di zingari, neri ed ebrei, ma agli ufficiali tedeschi piace il jazz e il responsabile dell’intrattenimento dei soldati interviene spesso per mettere in salvo i musicisti che animano le notti parigine suonando anche per la Wehrmacht.
Alla fine della guerra si aprono per Django le porte degli Stati Uniti. Viene invitato da Duke Ellington e parte con lui in tournée. Incontra Coleman Hawkins, Benny Carter, ma l’esperienza nel complesso lo delude, anche se si entusiasma per il nascente Bebop.
Torna in Europa e ricomincia a suonare, ma dopo qualche anno inspiegabilmente rallenta, si ritira in un villaggio nei pressi di Fontainebleau dove tutti lo conoscono come un bravo giocatore di biliardo e ne ignorano fama e talento musicale.
Muore a soli 43 anni, per emorragia cerebrale e, in piena tradizione sinti, tutto di lui viene distrutto. Per la seconda volta suo fratello depone su di lui una chitarra, questa volta sulla bara.
Sul palco dell’Abeliano rinasce Le Quintette de Hot Club de France: violino, contrabbasso e tre chitarre. Lo stesso Sassanelli è parte del gruppo, ma la magia è affidata a Luca Giacomelli, Luca Pirozzi e Raffaele Toninelli, tre dei quattro membri dei Musica da Ripostiglio, capaci di farci godere della musica in modo allegro e giocoso ma maledettamente serio e talentuoso. Una professionalità regalata al pubblico con sorriso complice e ammiccante, come se suonare la chitarra con la stessa tecnica e le stesse dita di Django fosse per Pirozzi pane quotidiano.
Il racconto di Luciano Scarpa, sorniona e coinvolgente guida in questo viaggio, si alterna alla musica. Le attrici-cantanti, tutte davvero brillanti, che richiamano le donnine della Parigi anni ‘30 ci regalano brani swing e una versione divertente e leggera di Boum di Charles Trenet. Le gigantografie proiettate sullo sfondo ci riportano per le strade, nei bistrot, nel fumo dei locali con le ballerine vestite alla Josephine Baker. Anche il violino colora, sebbene con personalità un po’ incerta e qualche difficoltà nell’amalgamarsi al gruppo, intense esecuzioni di pezzi indimenticabili come Minor swing e soprattutto la splendida quanto celeberrima Nuages.
Sassanelli, al di là di qualche piccola sbavatura nel ritmo della narrazione, riesce a farci vivere il sogno, e a Scarpa basta qualche minuto per stabilire le regole del gioco che lo porteranno a dialogare col pubblico, ben presto coinvolto e affascinato dall’atmosfera degli anni folli e dalle tinte forti di esistenze vissute tutte d’un fiato. Sono vite che hanno lasciato un segno indelebile in tanti musicisti, che ancora guardano a Django come ad un riferimento inarrivabile, e negli innamorati del suo jazz così originale (si pensi a Woody Allen che ne ha cantato il talento in Accordi e disaccordi, in cui un affranto Sean Penn sarà ossessionato dal fatto di essere giudicato il secondo miglior chitarrista al mondo dopo Django Reinhardt).
Il tempo scivola velocemente.
Il jazz racconta e seduce.
La magia di Django è compiuta.
Imma Covino
Foto di scena di Silvio Donà