Una storia esistenziale, di amicizia e di amori, di paternità e maternità, di struggimenti ed inquietudini: “Le otto montagne”, il romanzo di Paolo Cognetti, è un viaggio interiore, una metafora di vita, un altrove da esplorare

Se il punto in cui ti immergi nel fiume è il presente, ho pensato, allora il passato è l’acqua che ti è passata accanto, quella che è andata a valle e dove per te non è rimasto più niente; mentre il futuro è l’acqua che scende dall’alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è in valle, il futuro è in montagna.”

E si, sono passati un po’ di anni dal Premio Strega Giovani 2017, ma entrata per caso in una libreria, come spesso mi capita, ho letto il titolo, ed è stato amore a prima vista.
E ci ho visto bene, perché son qui a dire la mia su questo splendido racconto di un viaggio interiore.

Personalmente, ho imparato a vent’anni ad amare la montagna. Con un passo davanti all’altro, in silenzio, lasciandomi scorrere il tempo e misurando le mie forze, come chi la montagna la vive mi aveva insegnato.
La montagna non si limita a neve e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli.
La montagna è un modo di vivere la vita.
È fonte di insegnamento la montagna; ti insegna le tue debolezze e i tuoi limiti, come l’orizzonte sempre nascosto dietro una cima. Se vuoi scorgerlo devi salirci, costerà fatica, ma sarai ripagato dall’immensa bellezza che scorgerai con il cuore.

Forse è vero, come sosteneva mia madre, che ognuno di noi ha una quota prediletta in montagna, un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene. La sua era senz’altro il bosco dei 1500 metri, quello di abeti e larici, alla cui ombra cresce il mirtillo, il ginepro e il rododendro, e si nascondono i caprioli. Io ero più attratto dalla montagna che viene dopo: prateria alpina, torrenti, torbiere, erbe d’alta quota, bestie al pascolo. Ancora più in alto la vegetazione scompare, la neve copre ogni cosa fino all’inizio dell’estate e il colore prevalente è il grigio della roccia, venato dal quarzo e intarsiato dal giallo dei licheni. Lì cominciava il mondo di mio padre. Dopo tre ore di cammino i prati ei boschi lasciavano il posto alle pietraie, ai laghetti nascosti nelle conche glaciali, ai canaloni solcati dalle slavine, alle sorgenti di acqua gelida. La montagna si trasformava in un luogo più aspro, inospitale e puro: lassù lui diventava felice. Ringiovaniva, forse, tornando ad altre montagne e altri tempi. Anche il suo passo sembrava perdere peso e ritrovare un’agilità perduta.”

Il titolo del romanzo di Paolo Cognetti, da cui è stato tratto il film omonimo, in uscita a dicembre 2022, diretto da Felix van Groeningen, con Luca Marinelli e Alessandro Borghi, già premio della Giuria a Cannes 2022, potrebbe trarre in inganno. Le otto montagne, infatti, non sono otto cime da conquistare, ma racchiudono una visione del mondo molto antica. La si scopre nella terza parte del libro quando un vecchio nepalese che porta un carico di galline su per la valle dell’Everest incontra uno dei protagonisti, Pietro che, dopo la morte del padre, è partito incontro a nuove montagne, le più belle e lontane del mondo. I due scambiano qualche frase in nepali, il vecchio gli chiede come mai s’interessi tanto all’Himalaya e, sentendo la risposta di Pietro, esclama: “«Ah. Ho capito. Stai facendo il giro delle otto montagne.» Poi, tracciando una ruota a terra con un bastone, si mette a raccontare: «Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi.» Nel dirlo traccia, fuori dalla ruota, una piccola punta per ogni raggio, e poi una piccola onda tra una punta e l’altra. Otto montagne e otto mari. Infine disegna una corona intorno al centro della ruota, la cima innevata del Sumeru. Si ferma e poi punta il bastoncino al centro, concludendo: «– E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?».”

Chi avrà imparato di più? Chi esplora inquieto ogni centimetro o chi si concentra su un solo obiettivo? È proprio la risposta a questa domanda a rendere diversi i due protagonisti Pietro e Bruno. Si capisce che la storia ruota attorno a loro, due amici. Il primo viene da Milano e impara ad amare la montagna grazie al padre, uomo taciturno che lo porta con sé durante escursioni più o meno difficili. Bruno, invece, è in simbiosi con la montagna stessa. Nasce e vive a Grana, ai piedi del Monte Rosa, e non conosce altro mondo al di fuori di quello montano.

Paolo Cognetti, a soli 38 anni, è scrittore solido, con una grande esperienza perché studia e traduce la narrativa americana. Da qui nasce la sua prosa, concreta, rigorosa, sobria, raffinata, colma di densa semplicità.
In montagna si va su in silenzio quasi religioso, lo stesso silenzio che percorre tutto il romanzo, un discorso taciuto tra uomo e natura quasi ad enfatizzare il rapporto dell’uomo con la montagna e il modo in cui questo influenza a sua volta le relazioni tra gli esseri umani.

Cognetti conosce bene la montagna e i suoi elementi naturali. Niente è lasciato al caso: le piante e i fiori hanno un nome, e persino le rocce sono rievocate con la dolcezza di una lingua antica, ricca di termini quasi dimenticati come la pezza, il berio, l’arula. Ed ecco che si trasforma tutto, sembra di osservare un quadro, un’esplosione di colori e profumi, descritti con uno stile asciutto e allo stesso tempo poetico, senza mai risultare pesante. Il viaggio interiore viene a galla attraverso parole ben ponderate, con brevi dialoghi, che spesso celano un significato nascosto, perché – si sa – i discorsi non fatti diventano macigni nel cuore.

La montagna qui non è mitizzata, non è un idillio alpestre, come non lo è la vita. È il racconto della montagna oggi, fuori da ogni mito, di aspra bellezza, scabra, maestosa, dura più che mai. E proprio oggi ne abbiamo ancora una volta tristemente conferma a causa del tragico evento della Marmolada. Ma affascina perché che è una metafora di vita e un altrove da esplorare.

Le otto montagne si trasforma in una storia esistenziale, di amicizia e di amori, di paternità e maternità, di struggimenti e inquietudini e, alla fine, ci insegna che la vetta la si può raggiungere anche da soli, ma si impara di più giungendoci insieme alle persone a cui vogliamo bene.

Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.”

Perché alla fine, quando ci si guarda indietro, non rimane nient’altro che la strada percorsa, e davanti, in cima, nuovi orizzonti.

Maurizia Limongelli

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