“La fossa del leone
È ancora realtà
Uscirne è impossibile per noi
È uno slogan falsità
Il nostro caro angelo
Si ciba di radici e poi
Lui dorme nei cespugli sotto gli alberi
Ma schiavo non sarà mai
Gli specchi per le allodole
Inutilmente a terra balenano ormai
Come prostitute che nella notte vendono
Un gaio cesto di amore che amor non è mai
Paura e alienazione
E non quello che dici tu
Le rughe han troppi secoli oramai
Truccarle non si può più
Il nostro caro angelo
È giovane lo sai
Le reti il volo aperto gli precludono
Ma non rinuncia mai
Cattedrali oscurano
Le bianche ali, bianche non sembran più
Ma le nostre aspirazioni il buio filtrano
Traccianti luminose gli additano il blu.”
(Lucio Battisti, “Il nostro caro angelo”, testo di Mogol)
No, “Il nostro caro angelo”, la mia preferita, non era nella scaletta delle canzoni che Mogol (al secolo Giulio Rapetti) ha regalato alla città di Rutigliano, in una fredda serata di fine estate, nel cortile della Scuola “Settanni-Manzoni”, nel corso dell’evento “Mogol racconta Mogol”, nel corso del quale lo stesso mette a nudo parti della sua lunga vita di uomo e di autore, svelando il senso delle parole dei suoi massimi successi. Non lo fa da solo, ma si fa accompagnare da un trio d’eccezione: Michele Cortese, cantautore salentino già frontman del gruppo cult Aram Quartet, un brillante Daniele Vitali al piano e Davide Sergi alla chitarra.
A farla da padrone, naturalmente, è il lunghissimo sodalizio con Lucio Battisti, che neanche la morte ha potuto davvero sciogliere. Soprattutto, è inscindibile il legame tra musica e parole che ha unito la generazione di chi era ragazza o ragazzo quando i dischi vedevano la luce con quella di chi ha imparato le loro canzoni assieme alle poesie di Manzoni e Leopardi, e le sa e basta.
Oltretutto, la bellezza naturale delle canzoni di cui Mogol è stato autore o coautore si è scontrata con tutta una scena intellettuale che non ne ha percepito la potenza, soltanto perché in superficie non sono canzoni impegnate. Però, cantando amori clandestini, piccoli e grandi drammi esistenziali e debolezze dell’animo, non parlano anch’esse di ideali di libertà dell’individuo e della civiltà? In un’Italia dove le piogge di cattolicesimo spegnevano la modernizzazione del pensiero, quanto è importante la sfacciataggine di “un tuffo dove l’acqua è più blu”, messo in metrica perfetta?
Ed ecco che si inanellano i pezzi arcinoti: “Io vorrei…non vorrei…ma se vuoi”, “Un’avventura”, “I giardini di marzo”, “Una donna per amico” (con una bella chitarra western blues), “Con il nastro rosa”. Ampio spazio è dato anche ai capolavori meno noti all’ascoltatore entry level del cantautorato italiano come me, ossia “Anche per te” e “Vento nel vento”.
Lo scrigno centrale dello spettacolo è riservato alle storie segrete di alcune canzoni, che aiuta ad ascoltarle senza inerzia, con una rinnovata consapevolezza: “Il mio canto libero” e “Una giornata uggiosa”, molto più intime e anticonvenzionali di come la vulgata ha preferito credere. Il pubblico ha largamente cantato tutte le canzoni dalla prima all’ultima parola, culminando ne “La canzone del Sole”. I bis sono stati lasciati ai soli musicisti sul palco: “La collina dei ciliegi”, “Mi ritorni in mente”, “Nessun dolore”.
Si parlava di confessioni e di sodalizi oltre la morte, in questo Mogol non ha mancato di far commuovere tutte e tutti, con un profumo immutato nei decenni, parlando de “L’Arcobaleno”, edita da Adriano Celentano, uscita nel 1999, quattro mesi dopo la scomparsa di Lucio Battisti, che rimane il testamento/saluto al grande amico di una vita.
“Io son partito poi così d’improvviso
Che non ho avuto il tempo di salutare
Istante breve, ancora più breve
Se c’è una luce che trafigge il tuo cuore
L’arcobaleno è il mio messaggio d’amore
Può darsi un giorno ti riesca a toccare
Con i colori si può cancellare
Il più avvilente e desolante squallore
Son diventato, sai, tramonto di sera
E parlo come le foglie d’aprile
E vivrò dentro ad ogni voce sincera
E con gli uccelli vivo il canto sottile
E il mio discorso più bello e più denso
Esprime con il silenzio il suo senso
Io quante cose non avevo capito
Che sono chiare come stelle cadenti
E devo dirti che è un piacere infinito
Portare queste mie valigie pesanti
Mi manchi tanto amico caro, davvero
E tante cose son rimaste da dire
Ascolta sempre e solo musica vera
E cerca sempre se puoi di capire
Son diventato, sai, tramonto di sera
E parlo come le foglie di aprile
E vivrò dentro ad ogni voce sincera
E con gli uccelli vivo il canto sottile
E il mio discorso più bello e più denso
Esprime con il silenzio il suo senso
Mi manchi tanto amico caro, davvero
E tante cose son rimaste da dire
Ascolta sempre e solo musica vera
E cerca sempre se puoi di capire
Ascolta sempre e solo musica vera
E cerca sempre se puoi di capire
Ascolta sempre e solo musica vera
E cerca sempre se puoi di capire.”
(Adriano Celentano, “L’arcobaleno”, testo di Mogol)
Beatrice Zippo