La vendetta non è solo la definizione contenuta nel vocabolario Treccani, ovvero il danno inflitto ad altri in soddisfazione dell’offesa ricevuta: è un rituale, ha leggi precise, moventi ed effetti che, in ogni società, rispondono al bisogno primitivo e bestiale di eliminare il nemico e affermare o riaffermare il potere di sé o del proprio gruppo o famiglia.
La vendetta come strumento di rivendicazione della dignità dell’io offeso e dolorante cercando di infliggere le più gravi sofferenze fisiche, ma soprattutto psicologiche all’uomo o al suo gruppo che tanto crudelmente ha agito nei confronti del vendicatore.
I testi, le tragedie, i film ed i racconti su questo tema sono innumerevoli e, in alcuni casi, raggiungono livelli espressivi molto elevati o, più banalmente, si occupano di battaglie private del genere “giustiziere della notte” (stile Charles Bronson o, più recentemente, Schwarzenegger e tanti altri) nei revenge movie.
In questo filone, e francamente non in quelli di denuncia civile antimafia, mi pare si innesti “Ti mangio il cuore”, il film di Pippo Mezzapesa, sceneggiato dallo stesso, Davide Serino ed Antonella Gaeta, molto liberamente ispirato al libro, con lo stesso titolo, di Carlo Bonini e Giuliano Foschini (edito da Feltrinelli).
La vicenda viene costruita come si conviene per una tragedia i cui canoni principali sono rispettati in maniera quasi pedissequa, a partire dall’ambiente rurale, culturalmente confinato al rispetto delle tradizioni e all’allevamento degli animali, con molte pecore (nel Gargano era l’abigeato il delitto più
diffuso), con personaggi fisicamente isolati in masserie immerse negli spazi garganici, senza o con poche e strette vie di comunicazione che fa di loro criminali ricchi, ma senza ricchezza.
Tutto questo costituisce lo sfondo di una storia d’amore e, paradossalmente, di crescita di Andrea Malatesta, figlio prediletto di Michele e Teresa, innamoratissima (da non perdere la scena del ballo) ed altrettanto crudele coppia criminale. Sarà l’incoscienza e la temerarietà del giovane Andrea a scatenare la guerra tra famiglie rivali. Lui si è innamorato di una donna ‘nemica’, che gli dice “non mi dovresti nemmeno guardare”, e lei, con altrettanta incoscienza, lusingata e sola per vedovanza da irreperibilità del marito latitante, ricambia un amore che vorrebbe – ma non può – essere clandestino. L’onore ferito va vendicato e il marito latitante non esiterà a lavare nel sangue l’offesa ricevuta.
Quello che segue, ben immaginabile, percorre una strada narrativa molto simile a quella de “Il Padrino”: omicidi e crudeltà da parte di entrambi gli schieramenti. Andrea, suo malgrado, prende in mano le redini della famiglia, sotto la regia e lo stimolo di una madre ferita e, al tempo stesso, gelida ed implacabile nell’esigere il dolore dell’assassino del suo amato, in modo che il figlio assumerà il ruolo di capo e di compagno della madre (il riferimento a Edipo è fin troppo evidente), fino ad arrivare allo – scontato – epilogo della vicenda, come si addice ad un moderno eroe da tragedia greca.
La scelta del bianco e nero per fotografare luoghi e volti, in un richiamo non troppo velato al neorealismo degli anni 50, appare felice ed in perfetta sintonia con l’umore complessivo del film, cui fanno da giusta colonna sonora musiche di Theo Teardo certamente adeguate.
Francesco Patanè (Andrea Malatesta) inizialmente appare – giustamente – un po’ spaesato, ma cresce nello sviluppo del personaggio, affiancandolo senza, apparentemente, sovrapporvisi. Elodie (Marilena Camporeale) esplode di sensualità e di fierezza nel ruolo dell’amante, amata e tradita dalla necessità ambientale e di vendetta. Ottimi Lidia Vitale, bravissima, e Tommaso Ragno, attento e sostanzioso, rispettivamente madre e padre di Andrea. Bravi tutti gli altri attori in ruoli in cui nessuno sfigura, con una segnalazione per Francesco Di Leva (Giovannangelo), tenero e crudelissimo gregario. Di Michele Placido che dire? Ci sono suoi sguardi che racchiudono una classe infinita.
Il film è stato presentato come evento denuncia di una mafia sconosciuta ma, se questa è la vera ambizione dell’opera, l’obiettivo non è stato centrato perché non sono rappresentate le infiltrazioni sociali e politiche e le miserie dei mafiosi, ben presenti nel libro (per chi volesse maggiori informazioni sulla vera faida del Gargano e sull’impressionate numero di morti, suggerisco la seguente lettura: https://it.wikipedia.org/wiki/Faida_del_Gargano). Sul tema della mafia, l’unica vera riflessione, al termine del film, è che mai, nemmeno per sbaglio, è citato lo Stato, del tutto assente dal film e, si lascia intendere, anche da quei territori.
Se invece, a mio parere, lo si guarda con occhio sereno, senza farsi influenzare dalla comunicazione preventiva, ci si trova di fronte ad una davvero bella pellicola, con momenti visivi molto coinvolgenti ed una storia che si dipana tenebrosa e senza respiro.
E’ campione d’incassi nei cinema.
Marco Preverin