“Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.” (Francis Scott Fitzgerald)
Siamo onesti: se si parla de “Il grande Gatsby”, il nostro primo pensiero va alle trasposizioni cinematografiche del capolavoro letterario di Francis Scott Fitzgerald del 1925 ed, in particolare, per i più giovani alla pellicola del 2013 diretta da Baz Luhrmann ed interpretata da Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan e Tobey Maguire, mentre le menti più attempate (tra cui, naturalmente, non posso non inserire la mia) tornano a quella del 1974, sceneggiata da Francis Ford Coppola, sorprendentemente preferito a Truman Capote, per la regia di Jack Clayton e le indimenticabili interpretazioni di Robert Redford e Mia Farrow; pochi tra noi – confessiamocelo –visualizzano immediatamente il romanzo originario, quella pietra miliare della letteratura mondiale di ogni tempo che T.S. Eliot non tardò a definire “il primo passo in avanti fatto dalla narrativa americana dopo Henry James”.
Eppure, se ci fermassimo per un attimo ad investigare nei meandri della nostra memoria, potremmo recuperare le emozioni che ci hanno senza dubbio assalito alla prima lettura delle pagine create dallo scrittore statunitense, tradotte in Italia dalla magnifica penna di Fernanda Pivano (o così, perlomeno, le ho conosciute io), per raccontare, attraverso la voce narrante del testimone Nick Carraway, la travagliata quanto drammatica storia d’amore del misterioso Jay Gatsby e della bella Daisy Fay Buchanan, nonché del piccolo mondo antico che scorre loro accanto, in fin dei conti un trascurabile e finanche insignificante pre-testo che occorre all’autore per fotografare – come pochi hanno saputo fare – la storia americana e, tramite essa, un universo fatto di solitudini, disillusioni, superficialità, finto moralismo, invidie, gelosie, tradimenti, miserie e meschinità di varia (dis)umanità. Con lo scorrere delle pagine, Fitzgerald dissemina la sua – apparentemente semplice – narrazione di botole, trappole, abissi in cui i lettori, ognuno in base alla propria personalissima percezione, possano perdersi; a seconda del grado di coinvolgimento che si concede al romanzo, ci si può spingere ben presto ad abbandonare la descrizione del folle assolutismo del sogno d’amore e della pazza vita di Gatsby scegliendo di seguirne l’iperbolica caduta negli inferi, in tal modo subendo la stessa sorte delle luci abbaglianti delle sue chiassose feste, che si affievoliscono sino a spegnersi, generando ombre che si allungano struggenti e sinistre su tutti i personaggi della storia per poi inghiottirli definitivamente.
Ai colpi di genio letterario di livello assoluto di cui sono intrisi i nove capitoli dell’opera di Fitzgerald, rende oggi omaggio Alessandra Pizzi, ancora una volta – come avvenuto già in passato con Ovidio e Pirandello, tra gli altri – uscendo vincitrice da una affascinante operazione di rilettura e trasposizione teatrale di un testo classico, estrapolando tanto le più ossessive sfaccettature della meravigliosa storia d’amore quanto la disamina di quello che era l’America degli anni 20, sull’orlo di una crisi economica che di lì a poco avrebbe spazzato via la vita di tanti, ma che, comunque, provava imperterrita a nascondere a se stessa l’avvicinarsi della fine. L’adattamento della Pizzi affascina, conquista, ipnotizza, avvince ed ammalia il pubblico, al punto tale da fargli desiderare di riscoprire il romanzo (e non i film tratti dallo stesso) nella sua completezza ed in tutto il suo splendore.
Suoi sodali in questa titanica prova, Fabrizio Bordignon con la sua coinvolgente arte attoriale (già fattasi notare nell’“Apologia di Socrate – Dialogo sulla giustizia” della stessa Pizzi con Enrico Lo Verso) e Danilo Rea con l’irraggiungibile maestria pianistica che gli è propria, i quali, impegnati sul palco della Cittadella degli Artisti di Molfetta per la prima assoluta dell’evento prodotto dalla Ergo Sum nell’ambito della rassegna “Metti un libro a teatro”, riescono a trasformare quella che a molti può apparire una semplice macchia monocromatica di parole in una meravigliosa architettura di musiche, voci, luci, disegni ed intarsi, che prendono vita sul palco senza soluzione di continuità e senza alcun grado di separazione. In particolare Rea, già avvezzo ai voli pizziani per essere protagonista dello spettacolo “Enrico Caruso in jazz” assieme a Barbara Bovoli (saranno a brevissimo in quel di Bitonto), riesce ad inserirsi – da par suo – nella narrazione con la ‘sua’ musica, lasciandosi andare senza freni all’amata improvvisazione, realizzando una splendida ed inimitabile elegia dell’“età del jazz” cantata da Fitzgerald, di fatto compiendo una estemporanea ed irripetibile sonorizzazione della lettura di Bordignon, in un amabilissimo gioco di specchi e di rimandi ad un passato che, come direbbe il grande Gatsby in persona, “si può ripetere. Certo che si può!”
Pasquale Attolico
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